Non ho ancora trovato il mio ristorante di Milano del cuore di tonno, vado, giro, annuso, assaggio ma non scatta l’amore anche se, devo ammetterlo, in quest’ultima tornata qualche flirt c’è e, sebbene non vi siano voti, capirete dove. Non mi dilungo, non mi slaccio, non dico niente che quando uno parla assai porta sfiga.
SOLITO DISCLAIMER
I prezzi indicati si riferiscono a ciò che ho pagato di tasca mia da normale cliente – quindi, senza mai presentarmi come fudbloggah o presunto tale – e come quota singola. Nei paragrafi non ho menzionato tutte le portate che ho mangiato, quindi le cifre che vedete possono comprendere anche altro. Ho sempre ordinato almeno 2 portate. C’è sempre del vino di mezzo, bottiglia o calice è specificato – per la boccia il prezzo pagato ne comprende una parte “alla romana” – perché chi non beve mentre mangia è un po’ tristomane (ma anche prima, anche dopo).
Non è una classifica – non faccio classifiche – è un compendio in ordine Alla Cazzo. Non ci sono sentenze, solo le mie personalissime opinioni. Se qualche ristoratore dovesse arrabbiarsi: Fatti Suoi: sottoporsi a pareri negativi, e non solo ai “Bene, Bravo, Bis!”, fa parte del mestiere.
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MEZZÉ
Via Varanini 9, Milano – www.facebook.com/ristoranteMezze.varanini9.milano
È fresco d’apertura ma c’è tanto potenziale. In sala due siciliani e un campano, cucina che guarda al sud Italia ma anche oltre confine e che punta sulle ottime materie prime.
Proprio il personale mi trasmette buone sensazioni. Cordiali, mai restii al sorriso e al consiglio senza risultare invadenti, il campano, che è il sommelier, si ferma pure un paio di minuti a parlare accostato al tavolo e parte una breve discussione su come l’appiattimento del palato-medio dei clienti rischi di far sparire certe tradizioni culinarie.
Sono con un amico, dividiamo tutto, com’è mia consuetudine quando esco a mangiare fuori.
Non v’ho detto una cosa: il locale si chiama Mezzé perché in carta alcune portate – tutte scritte a mano – sono anche in versione mezza porzione. Il che è comodo se avete tanti cassettini nel pancino e volete assaggiare diverse preparazioni (ogni tanto però la cucina s’impalla, sono stato una seconda volta e il servizio è stato un po’ lento).
Stupende le favette con cicoria, praticamente un macco di fave (mi spiegano che usano quelle gialle secche) setoso la cui lievissima dolcezza s’accoppia bene con la cicoria, un po’ amarognola.
Alla lasagna di pane carasau con borragine, erba luisa e formaggio di capra manca solo una crema che la renda più fluida e umida anche se c’è da dire che se il pane carasau lo bagni troppo diventa cartoncino sfaldato. In compenso lega molto bene il tutto l’acidità del formaggio di capra.
La tajine d’agnello alle prugne e albicocche con fregola sarda ha il suo perché, la carne è talmente ingentilita che non sembra nemmeno ovino. Personalmente quel tocco di lanugine in più al palato lo gradisco. La picanha di manzo è in buona sostanza un roastbeef ma per niente secco, la parte del grasso che ha ricevuto più calore ha sviluppato una maliziosa crosticina che non ti dico. Molto interessante anche il pavé di vitello alla birra ambrata con una salsa di miele e zafferano che gioca sull’asse dolce-amaro. Personalmente la carne l’avrei lasciata un po’ più al sangue ma era comunque tenera, parecchio tenera.
Con bottiglia di vino, 46 €.
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CASA RAMEN SUPER
Via Ugo Bassi 26, Milano – www.facebook.com/casaramensuper
Ho tentato due volte di sedermi a un tavolo nel primigenio Casa Ramen ma non ci sono mai riuscito. Rimedio con un pranzo al più grande Casa Ramen Super.
La sala, arredata nell’immancabile stile shabby-chic minimale, è semivuota ma solo perché sono le 14.30, ormai fine servizio.
Parto con un mini-bao ripieno di agnello e maionese aromatizzata al pepe di Timut che rischia di provocarmi una piccola sincope tanto è buono, col sapore della carne delicato e la maionese che pizzica leggermente la lingua.
Anche i dumpling ripieni di maiale con doppio wasabi e cipolla fritta se la cavano abbastanza bene in uno sgomitare di consistenze interessanti.
Il pezzo forte però è il ramen. Chiedo un Red Paitan con brodo di pollo piccante, uovo marinato, pancia di maiale chashu, bamboo, cipollotto e germogli che, santocielo, qualcuno chiami qualcun altro che mi sorregga per l’emozione: l’umami spiccato e la cremosità avvolgente del brodo sono una goduria infinita, vorrei sapere tutti i segreti di sto benedetto brodo ma lì dentro nessuno si sbottona. Ómini di panza.
Con birra, 24 €.
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MACELLAIO RC
Via Fiori Chiari 26, Milano – www.macellaiorc.com
Negli stessi locali prima c’era un ristorante di stampo “healthy” in cui le porzioni erano pesate al milligrammo e tutto era bilanciato in termini nutrizionali, secondo loro. Insomma, una milanesata bella e buona. Ho quindi accolto con entusiasmo il cambio di locazione, adesso anziché verdurine scondite e un perfetto bilanciamento di grassi e fibre ci sta la carnazza.
Il cameriere, che sa intortarti per bene, si lancia subito in una spiegazione sulla qualità della razza fassona e sui 60 giorni di frollatura.
Sul menu scorgo qualche frattaglia: trippa, lingua, cervella fritte. Opto per il cuore alla griglia accompagnato da una salsa al rafano. Davvero non male tenendo conto che il cuore, essendo tutto muscolo, è facile trasformarlo in un chewing gum se non lo cuoci bene.
Il piatto forte, a detta del cameriere, è la costata. E allora costata sia. Cotta al sangue come dev’essere, oltre 600 grammi (con osso) bene eseguiti, ogni fetta è succosa e morbida e perfettamente rosa all’interno ma se siete in due e dividete tutto solo con queste due portate v’alzate con un buco in pancia.
Sulla carta dei vini ci sono anche bocce sopra i 300 euro, il Roero ordinato stava a 35 € ed era elegante e vivace nel contempo.
Con vino, 52 €.
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LITTLE LAMB
Via Paolo Sarpi 8, Milano
Fa parte di una catena di ristoranti cinesi di hot pot, ogni commensale cuoce i vari pezzi di cibo che planano su vassoi in una pentola incassata dentro un buco riscaldato al centro del tavolo.
Si possono scegliere 8 tipi diversi di brodo – di funghi, piccante o no, al pomodoro, al peperoncino verde – e una moltitudine di cibi crudi da annegare nel liquido e mangiare una volta cotti.
Si punta molto sulla materia prima, ovviamente, nonostante i costi contenuti. Arrivano calamari e seppioline, sottili fette di agnello, capesante, verdure e funghi, una tonnellata di roba che, carissimi Follouà, saranno più o meno gustosi in base a quanto li cuocerete. Se siete delle seghe ai fornelli, ehm, un po’ rischiate.
Tra tutto preferisco la trippa, tagliata sottile e pulita alla perfezione tant’è che anche al naso non sembra nemmeno quella cosa lì. Hanno pure un carrello con delle salsine self service, quella piccante con anacardi vince il premio Salsina Metal del Semestre.
Con diverse birre, stavo in comitiva, 21 €.
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DA MICHELE I CONDURRO
Via Orti 31, Milano – www.facebook.com/CondurroMilano
Nel tripudio di pizzerie che invadono Milano, Da Michele I Condurro sta sulla piazza già da quasi due anni.
Sia chiaro: non è la succursale della famosa Da Michele di Forcella a Napoli, sebbene vi siano state diatribe e polemiche a riguardo. Delle scaramucce onomastiche me ne frega meno di zero.
Coi miei amici prenotiamo ma aspettiamo un’ulteriore mezz’ora prima di sederci, è sabato sera, possiamo chiudere un occhio.
Al tavolo il servizio è un po’ sbrigativo, non sgarbato ma neanche troppo gentile.
Il fritto d’apertura è da dimenticare, arancini mosci, frittatina di pasta insapore, la mozzarella in carrozza inspiegabilmente dolce.
Le pizze sono mastodontiche e trasbordano oltre il limite del piatto. Sono ipersottili, impasto elastico come da tradizione napoletana ma cotte veramente male, il cornicione all’interno è praticamente crudo. Non ci si spreca nemmeno sul condimento, ampie zone di pizza sono quasi deserte a fronte di una media prezzo abbastanza elevata, la margherita fa 8 €.
Sarò onesto, non mi dice veramente nulla, divido con un amico sia la margherita che la Terra Mia con salsiccia e friarielli ma non c’è nulla di memorabile.
Piccola nota di merito a margine: entrambe le pizze ben lievitate, nemmeno la minima urgenza di bere un sorso d’acqua successivamente.
Con due birre, 28 €.
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CONSORZIO STOPPANI
Via Stoppani 15, Milano – www.facebook.com/consorziostoppani
Conosco i due gestori perché avevano un bar che frequentavo nel dopo lavoro nella mia vecchia vita d’ufficio, sarebbe quindi per me naturale ammorbidire la mia opinione ma siccome non sono una troia intellettuale sarò onesto.
Il concept del locale è mettere in carta piatti della tradizione italiana, magari ritoccati da una punta di personalità.
Già l’antipasto lascia a desiderare. Sia salumi che formaggi non sono di prima scelta, quasi al livello trattoria alla buona, anche troppo buona. Gli arancini di cous cous poi sono troppo grandi, delle vere e proprie bocce stoppose e dal ripieno scarso. Il fritto è anche un po’ moscio.
Prendo un risotto con crema di mango e raspadura che, se nelle intenzioni è curioso, nell’esecuzione lo è un po’ meno, poco armonico e sostanzialmente slegato, col riso al limite della cottura.
Viene poi il turno del “purpu a pignata” ovvero polpo in coccio con patate e sugo di pomodoro lievemente piccante. Salatissimo e stracotto, anche un po’ brutto a vedersi.
Ero in comitiva di amici, 35 € con conto diviso equamente comprensivo di diverse bocce di vino.
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HUA CHENG
Via Giordano Bruno 13, Milano – www.facebook.com/Trattoria-cinese-Hua-Cheng
È una delle trattorie cinesi più acclamate di Milano in una parallela di via Paolo Sarpi.
Scordatevi l’ambiente pettinato dei nuovi – tanti – locali di impronta orientale che stanno proliferando. La luce è itterica e bassa, la sala ha un che di anticamera del medico e i tavoli sono attaccati uno con l’altro creando praticamente delle mini-tavolate. Circa una trentina di posti a sedere.
Il servizio è di poche parole ma efficientissimo.
I ravioli con carne di maiale sono eccellenti e anche piuttosto delicati, predomina lo zenzero nel ripieno. Gli spaghetti fatti in casa con verdure anch’essi tenui al palato, segno che c’è stata una certa “occidentalizzazione” senza calcare la mano su sapori forti. Non so decidermi se sia un bene, però.
Eccellente il maiale in pastella saltato con salsa agrodolce di ananas e peperone, un tocchetto tira l’altro. E altrettanto bombaroli gli gnocchi di riso con verdure e pancetta secca, quest’ultima a dare brio con una punta d’affumicato. Infine la pancetta di maiale dai generosi strati di grasso cotta insieme al taro, la patata cinese, mi arriva una porzione davvero gigante che non riesco a finire anche perché gli gnocchi mi hanno messo k.o.
I piatti sono abbondanti al contrario del conto, i ristoranti cinesi sono una garanzia se si vuol mangiare bene spendendo poco.
Infatti con una birra grande il conto è solo di 17 € a testa.
Stay tuna