Nel gorgoglio transumante di corpi che affollavano le strade specchiandosi nelle vetrine e saturando l’aria con frasi ovvie sul più e sul meno e sul diviso e sul moltiplicato, lo avvistai. Era uno di quei giorni senza alcuna pretesa in cui ogni casuale incontro è un crocevia che rivolta gli eventi. Faceva finta di nulla ma contraeva i muscoli del viso trattenendo un sorriso di imbarazzo. Nonostante l’ora pomeridiana, indossava un frac. L’abito da gran cerimonia liberava la pinna dorsale, che ondeggiava, anzi no, scodinzolava.
Il Tonno in Frac passeggiava in mezzo agli umani e nessuno lo degnava di uno sguardo. Fumava una sigaretta rollata in squame di sgombro. Il fumo emergeva in nuvolette spumeggianti dal suo antro, neanche fosse una balena bianca.
Accelerai il passo e lo fiancheggiai. Mi avvicinai, lui si voltò e capì. Sapeva che il nostro incontro ne avrebbe compiuto il destino. Ci guardammo, ci annusammo, ci riconoscemmo.
Ta-dan, gli ghignai tra i denti.
Ri-tar-da-to, mi rispose cortese.
Non lo mandai affanculo per non ostacolare i mutamenti di lì a venire, ma gli avrei infilato la motrice di un tir su per il culo. Il Tonno in Frac, ignaro del truculento flusso dei miei pensieri, non disse nulla, conosceva alla lettera quale maledizione apparteneva alla sua stirpe. I suoi antenati c’erano passati tutti. Sapeva che anche lui aveva un mastino che vagava nella brughiera e che gli stava con il fiato sul collo e non attendeva altro che braccarlo. Il mastino ero io, l’Uomo Senza Tonno, infelice romingo senza più scatolame in dispensa.
Tirò un’ultima boccata alla sigaretta e la spense con la pinna. Mi fece un cenno col capo e fu lì che misi in atto il piano. Sapeva a cosa andava incontro. Gli cinsi il busto avvolto in quel pregiato tessuto che puzzava di porto e reti intrecciate e bagnate e banco frigo e di altro schifidus assortito, e lo caricai in spalla emettendo un suono di sforzo come quelli che si fanno sul Trono al mattino. Ma non fuoriscì nulla dal mio corpo. Proseguii a passo deciso per il lungo viale schivando gli umani che mi venivano incontro, pupazzi di una casa stregata in un luna park di shopping.
Il Tonno in Frac era un arco pinnato sulla mia spalla, la forza di gravità lo reclamava sorda alla mia fatica e sorda ai discorsi dei passanti che mi stavano avanti e che ciarlavano di scarpe, griffe, graffi e graffette e dovetti farmi largo con un peto nucleare per toglierli di mezzo. Lui, il Tonno in Frac, non muoveva una pinna, ansimava soltanto e mugugnava qualcosa di marinaresco. Una preghiera, forse. O vilipendeva qualche santo a caso del calendario. Più probabile.
Giungemmo di fronte al portone della mia dimora, una gran cassa cardiaca di puro death metal mi pulsava nello sterno e l’affanno mi riportò in bocca il vago alone ferroso del sangue. Feci scendere dalla spalla il Tonno in Frac, che era muto ma tremava un po’.
Salimmo nel Tempio dell’Uomo Senza Tonno e lo condussi nelle segrete, dove da tempo avevo allestito l’altare dove si sarebbe consumato il Sacrifizio.
Accesi incensi e candele e la lama del coltello sul piano dell’altare scintillò. Quando la vide, il Tonno in Frac sussultò ma mantenne poi la calma. Gli presi le pinne e lo fissai negli occhi, vivi e luccicanti che ne garantivano la freschezza. Lui boccheggiò e si guardò intorno. Notò tra le pareti i dipinti dei suoi avi sacrificati da precedenti Uomini Senza Tonno, di cui io sono l’ultimo esponente ancora in vitaa. Tonni in parrucche settecenteche, tonni in divise militari, tonni secessionisti con lunghi basettoni e menti caprini abramolincolniani. Tonni col culo di fuori gossippati in vacanza a Formentera. Riconobbe alcuni suoi prozii, già belli e digeriti decenni e decenni fa.
Il Tonno in Frac conosceva la pratica. Si tolse l’abito e rimase ignudo. Il tremolio delle fiammelle a forma di mandorla delle candele rilucevano sulla sua livrea argentata.
Intorno a noi un silenzio spugnoso, disturbato dallo scoppiettio del liquido branchiale del Tonno Non-Più in Frac e dal suo affanno, quasi asmatico. Avevo il cuore che sferzava dall’emozione e il suo profondo tamburellare mi salì fino alle orecchie, brutalizzava i timpani.
Giunse l’ora.
Sentivo il peso della Storia su di me. L’ultimo Uomo Senza Tonno di fronte all’ultimo Baskerville dei Tonni.
Impugnai il coltello. Dovevo solo ricavarne un filetto a vivo dal costato e attendere che il Tonno esalasse lentamente affinché il suo spirito venisse ghermito da quelli degli avi della mia stirpe, che lo avrebbero ripartito in diverse scatolette da vendere alla Nostromo.
Non dovetti dire nulla, lui m’offrì il costato, io affondai la lama, il sangue vivo zampillò, eresse di scatto la pinna dorsale, strinse i denti ma non disse un cazzo.
Il fato s’era compiuto. Incisi con forza e tirai fuori il Filetto. Feci un rutto e mi grattai l’ascella. Il nuovo deodorante mi procurava irritazioni.
Lui barcollò e cadde a terra, stavolta immobile. Mi aspettavo urla di orrore e smorfie di acuto dolore, emorragie e una lunga ed estenuante agonia. Ma il Tonno esalò in fretta.
Mi voltai verso l’altare per innalzare canti di giubilo e officiare l’ultimo passo del rituale dell’Estrazione del Filetto. Ero giunto alla recitazione degli ultimi versi dell’oscuro manoscritto quattrocentesco E Tonnibus Unam quando qualcosa alle mie spalle si mosse.
Il Tonno Non-Più in Frac era dritto come un furetto e rinsavito. La ferita rimarginata, nessuna goccia di sangue a venarne la livrea.
Mi fissò col suo sguardo austero da pesce bollito, l’occhio attento e globulare. ISi avvicinò, si inumidì le le labbra con la lingua tonnesca, prese un lungo respiro e, col suo alito rancido da abisso pieno di calamari deceduti, disse: Caro Uomo Senza Tonno delle mie gran palle, capisco la solitudine e l’immensa mancanza che affligge te e tutti quegli stronzi della tua stirpe che compiono questa mattanza contro gli esponenti della mia, di stirpe, ma a me di tutta sta faccenda non me ne fotte proprio un cazzo. Ti confesso che darti un filetto non mi costa nulla poiché assumo quoditidanamente delle fialette che mi permettono di rigenerare le cellule del corpo e, quindi, quando ne perdo un pezzo, questo ricresce poco dopo come la coda di una lucertola. Uomo Senza Tonno, io il Tonno te l’ho dato, ma l’intero Sacrifizio, scusami se te lo dico, ma Stocazzo che lo faccio. Quindi, beccati questo e ti saluto con una sonora pernacchietta.
Il beccati questo era un bel medio che si ergeva dalla pinna laterale destra. Spernacchiandomi e deridendomi, il Tonno Non-Più in Frac raccolse il frac e guadagnò l’uscita. Si salvò grazie a questo astuto stratagemma.
Deluso dal fallimento, non avendo più un Tonno intero da sacrificare agli avi, per sfuggire all’ira degli spiriti, presi il Filetto rimasto e corsi nel mio laboratorio fornellesco, dove potei quindi elaborare una Soluzione Alternativa all’immolazione mancata.
Pensai alle cover. Lanegan che rifà Carry Home e la ripulisce. Susanna And The Magical Orchestra che annienta la potenza di It’s A Long Way To The Top degli Ac/Dc. Gli A Perfect Circle che drammatizzano l’inno alla pace più famoso. Johnny Cash che conduce il dolore nineinchnailsiano nella desolante campagna americana. Capolavori di reinterpretazione, seppur senza violare uno stretto rapporto con la matrice.
Bene, in casa dell’Uomo Senza Tonno ma con un Filetto di Tonno davanti gli occhi, giunge il momento dicoverizzare la famosa e immortale e tuttoquelchediavolovolete Carbonara.
Cucinare una Carbonara è come coverizzare I Can’t Get No Satisfaction: tutti dicono di saperla suonare, è facile come il riff palindromo scoccato dai polpastrelli di Keith Richards, ma alla fine spesso il risultato è penoso. O quasi.
Confessa. Quante carbonare notturne di emergenza alcolica hai ingurgitato con cipolla bruciacchiata e prosciutto a cubetti scadente e scaduto? E quante con l’uovo stanto coagulato da generare un tortino, un’omelette, un ovetto strapazzato con gli spaghetti in mezzo?
Ecco, confessa.
Coverizzo la Carbonara, elaborando una Carbonara di Tonno. Mantenendo però il procedimento tradizionale.
In primis, colgo il Filetto del Sacrificio, ovvero lui, il Pomo della Discordia
e lo taglio a tocchetti di medie dimensioni. Preparo un trito di cipolla che rosolo in padella con dell’olio extra-sfregiato d’oliva e che successivamente stufo con del vino bianco. Poco.
Aggiungo i tocchetti di tonno, che faccio rosolare e insaporire per bene per 5 minuti tondi, non di più e tolgo dal fuoco.
Firulì, firulà, ululì, ululà, rompo un uovo intero e poi un altro da cui ricavo solo il tuorlo e sbatacchio il tutto in un recipiente. Gli ovetti si fanno fustigare con cura, sbattuti come due wrestler senza alcuna capacità di reazione.
Giunge il momento in cui i puristi della Pasta Col Pesce insorgono. Sì, seguire la ricetta tradizionale significa aggiungere alle uova il Pecorino. E un cucchiaino e mezzo fu. Me ne dolgo, anche io non compio tali scempi di norma, ma se Carbonara deve essere, avete poco da lagnarvi.
Incorporo con altre frustate degne di uno schiavo biblico e metto da parte.
Gli spaghetti stanno già contorcendosi in pentola con acqua bollente e, una volta giunti alla consistenza post-gengivale, ovvero quella Al Dente, spegno la fiamma e non li scolo. No no. Mi armo di forchettone e li tiro fuori ancora gocciolanti e li travaso nell’insalatiera con le uova e il pecorino. L’acqua di cottura mi consente di coagulare un po’ l’uovo ma senza ridurlo allo stato di omelette, garantendo la cremosità che in molti raggiungono aggiungendo della panna. Preferirei radermi la barba del tutto piuttosto che aggregare della panna da cucina in una Carbonara.
Amalgamo gli spaghetti con l’uovo e il pecorino molto rapidamente e aggiungo il tonno a tocchetti, insieme all’olio di cottura e alla cipolla soffrittastufata. Incorporo come si deve e macino del pepe nero.
Il mare tonnaresco diventa colesterolico e violento se combinato con l’ovetto pecorinato. Chi diffida smetta di diffidare, i cubetti di tonno cotto sono carnosi e danno una sontuosa consistenza al piatto. Ma, sia chiaro: non sia mai una Carbonara di Tonno fatta con le scatolette. Che gli avi dell’Uomo Senza Tonno vi fulminino seduta stante.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: Mark Lanegan, I’ll Take Care Of You, annata 1999