Ogni giorno che passa, l’umanità mi preoccupa sempre più. Senti questa. Mi reco al mio fido supermercato per entrare in possesso del pesce e di altri affari che impiegherò successivamente per questa mia nuova creazione fornellara e mi catapulto direttamente al reparto pescheria. Strappo il numeretto di carta che sporge come una lingua dall’apposita macchinetta e attendo diligentemente che arrivi il mio turno mentre chi mi ha preceduto ordina chi un chilo di cozze, chi 9-gamberoni-di-numero che pesavano quasi 400 grammi ciascuno, chi un filetto di trota salmonata, chi Uno Pesce. Sì, dice proprio così il tizio che è sbucato da chissà dove e senza attendere code e prendere numeri, indica con l’indice le sardine all’addetto della pescheria. Quello incarta i gamberoni alla signora, prende Uno Pesce – il tizio era di origini arabe e dal sospetto tasso alcolico elevato già alle 11.30 di sabato mattina, due fattori che spiegano l’uso improprio dell’articolo indeterminativo – e glielo porge. Che fa il nostro oscuro personaggio con l’Uno Pesce? Prende la mira con l’indice mentre con l’altra mano tiene l’esanime Clupeidae per la coda, stacca le viscere e ingurgita tutto sano quel che gli resta. Ovvero tutto: testa, occhi, pinne, branchie, lisca. Poggia le viscere su uno scatolo di polistirolo piazzato su un carrellino accanto al bancone del pesce e senza dire nulla, si allontana. Ma viene verso di me. Con la sontuosa barba di 7 centimetri che mi ritrovo, sono una calamita di gente sbronza o mentalmente instabile che mi domanda quanto tempo c’ho messo a farla crescere così e capace di complimenti del calibro di Somigli a Bin Laden, non nego quindi che l’inquietudine m’assale quando il sommelier mi passa accanto con le dita zozze di sardina appena consumata. Per fortuna, adotto la tecnicaT-Rex di Jurassic Park: se non ti muovi, non ti vede. Rimango marmorizzato fissando un punto indefinito tra la granseola stecchita e i branzini selvatici e lui sfila via, chissà dove, verso le viscere del supermercato, che è anche il reparto dedicato alla carta igienica. Non sono tanto impressionabile con le schifezze, ma dato che avevo ancora lo yogurt e i biscotti della colazione in pancia, con qualche residuo di birra della sera precedente, ammetto che la scena mi abbia generato un lieve senso di nausea. Ma la cosa più assurda è stato il surrealismo che ha ammantato lo scorrere dell’evento, con tutti a guardare sto tizio che si puliva il pesce e se lo infilava in bocca, quelle robe che sono talmente assurde e inaspettate che, una volta finite, ti domandi: É successo davvero? Come una di quelle scene dei film di Lynch.

C’è dello schifo in giro, diciamocelo senza nasconderci dietro una pinna di sardina. Ma non nella Gonzo-Cucina dell’Uomo Senza Tonno, ancora una volta al servizio della fantasia tra pentole e fornelli.

Alla fine il pesce l’ho comprato. L’eletto fu la seppia, anzi, ne ho prese due, non si sa mai una si devasta e poi non posso fare le mie superlative foto dimostrative.

Ho così progettato e realizzato questo piatto che è un ibrido tra un primo e un secondo. I più direbbero Piatto Unico, ma gradirei che non mi si scassasse la minchia con queste canoniche nomenclature. Lo chiameremo Piatto e basta. Lo inserirò nel menu del ristorante che aprirò un giorno o nel libro di ricette che scriverò un giorno, senza però mai pubblicarlo. Io faccio tutto questo per la gloria, mica per fare la bella vita.

Cosa cucino oggi? Lustrati le lenti degli occhiali per leggerlo meglio, perché questo è il racconto di come edificai una (in verità sono due, ma i numeri qui sono mere opinioni):

seppia alla piastra

ripiena di

spaghetti al nero,

peperone e

guanciale

croccante

crunch crunch.

Solo a scriverlo mi sbavo sulla maglietta per l’eccessiva secrezione di saliva.

Spaghetti al nero con seppia alla piastra, guanciale e peperoni

Diamoci dentro ed elenchiamo la lista della materia prima e seconda che serve per riempire un piatto e una panza:

– una (due) seppia (seppie) zozze di nero e da pulire. Sottinteso: fresche
– 90 grammi di spaghetti (dose taroccata, io me ne sparo almeno 120 grammi e più)
– peperone rosso a piacere – nel senso che uno è troppo, una parte va bene
– 80 grammi di guanciale
– mezzo bicchiere di vino bianco
– olio extravergine d’oliva
– concentrato di pomodoro
– sale

La prima grande e scassaminchia impellenza è Pulire Le Seppie. Eviscerare molluschi tipo polpi, moscardini, calamari e via discorrendo è una di quelle manovre della cucina che mette a dura prova la capacità di trattenere il vomito. Devi toccare sto cadavere mollo con tutte le merdine dentro, infilare le dita in fondo al tronco mentre i liquidi collosi scoppiettano ed emettono quei suonini viscidini e le bolle d’aria che si creano dentro crepitano e, insomma, non è una roba per schifiltosi. Però è divertente. Fa schifo ma è divertente. La seppia non è esente dalla mondatura, ma tra tutti i cosini molli coi tentacoli è, penso, quello più difficile e cagacazzo da sgrasciare. Perché? In primis, sciacquo per bene e ficco le dita nella seppia estraendo l’intestino e le merdine, stando attento a non rompere la sacca dell’inchiostro, che è il Gran Tesoro di sto pesciolino. Se si rompe la sacca, mi si rompe la mia, di sacca. Estirpo l’osso che tutti ricorderanno per via di quella roba scritta da Montale, tiro via la preziosa sacca dell’inchiostro e la metto da parte, elimino le viscere e gli occhi e il beccuccio e lavo quel che mi rimane: i tentacoli e il tronco, ormai vuoto. Metto da parte.

Peperone: ne taglio una porzione, circa un quarto, elimino semi e la costa interna più bianca e lo sbuccio con un pelapatate. Questa faccenda l’ho appresa leggendo questo. Privandolo della pelle senza arrostirlo, si evita il frequente sapore amarognolo causato dalla bruciatura, che è anche quella che consente di staccare la buccia esterna dalla polpa. Usando un pelapatate, ok che è difficile perché il peperone ha una forma irregolare, quindi è necessario sfogliare il calendario bestemmiando tutti i santi del giorno, ma si mantiene inalterata la fragranza dell’ortaggio. Ringraziami per il consiglio, adesso.

Taglio a listarelle il peperone e lo rosolo in una padella in cui ho scaldato 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva e stufato della cipolla bianca tritata. Dopo 5 minuti d’orologio unisco i tentacoli della seppia e sfumo con mezzo bicchiere di vino bianco. Lascio andare finché la parte alcolica non sfuma del tutto, aggiungo il concentrato di pomodoro e la sacca del nero e faccio cuocere a fiamma bassa per una decina di minuti. 

Acchiappo il porco sottoforma di guanciale, sopraffino e sublime salume che andrebbe adorato alla stregua di un totem, superlativo protagonista di carbonare e gricie e, insomma, versatile come un passeggino Chicco. Taglio anch’esso a listarelle e in una padella scaldata a secco – ovvero senza grassi di alcun tipo, altrimenti il sangue mi diventa della consistenza di un marshmallow – lo stufo, facendolo sudare alacremente per rilasciare tutta la ciccia e formare la crosticina che lo rende croccante. Con la schiumarola lo tiro via dalla padella e lo metto da parte. Butto via il grasso, ovviamente.

Cuocio gli spaghetti in acqua salata e li scolo. Aggiungo il guanciale al sugo, lui si tinge e si mimetizza ed è pronto per il matrimonio amidaceo che sta per consumarsi col regale spaghetto. Che compie un salto carpiato e finisce in padella e legarsi col sugo, a cui ho aggiunto una puntina microscopica di sale: l’ingresso del guanciale da una spinta niente male alla sapidità e, inoltre, l’inchiostro della seppia ha già il suo indice salino.

La pasta è pronta, manca solo che la infili dentro la seppia. Ah già, dimenticavo. Poco prima di scolare la pasta, la seppia fa una bella visita alla piastra riscaldata, due minuti per lato in modo da non rovinarsi all’esterno e non diventare callosa come una Big Bubble. Ficco gli spaghetti dentro la seppia arrotolandoli a nido con una forchetta ed è tutto finito. No, dovrei anche mangiarla, apprezzando così il contrasto che il guanciale mette in atto col peperone leggermente dolce e il sapore leggero del sugo al nero. Roba per chi ama le sfumature.

Stay tuna

Il Disconsiglio: ci vuole qualcosa di very strong, roba nera di quella che ti fa guizzare il timpano e te lo fa scampanare. A me quel nero lì piaceva tanto, per questo ce lo vedo bene abbinato a questo piatto. Un bell’Howlin’Wolf, Moaning In The Moonlight, annata 1959.