Al telefono ieri sera mia madre mi ha detto che mi sente molto calmo. Francamente finché non me l’ha fatto notare lei non avevo realizzato la cosa. Ha ragione, sì, mi sento molto calmo, a tratti imperturbabile. Le prime 3 settimane di quarantena sono state un elettrocardiogramma impazzito, un continuo sali-scendi umorale che mi ha gettato in confusione, spesso pietrificandomi. Credo sia successo a tutti, è stato uno tsunami improvviso con cui, dietro allo scattare delle serrature delle nostre porte, ci siamo portati in casa sacchi di ansie e disorientamento.
Il tempo è però portatore di consigli e ho deciso di prendermene un po’ prima di cominciare la mia “nuova vita”. È la stessa dinamica che ho affrontato quando, a fine 2015, ho perso casa e lavoro da copywriter in poco meno di una settimana. Anche quella fu una situazione inaspettata che inizialmente non ebbi il tempo di metabolizzare e solo dopo essermi preso una pausa di riflessione si è poi aperta la strada della cucina a domicilio.
Quando qualche mese dopo fui investito da un’auto mentre andavo in bicicletta, di notte, ho acquisito un’ulteriore consapevolezza. Quella della mia mortalità che fino a quel momento non avevo preso troppo sul serio. Uscii pressoché illeso ma se l’auto mi avesse preso 10 cm più verso il centro del muso mi avrebbe atteso un futuro su una sedia a rotelle, o peggio ancora, sarei morto.
Dopo queste esperienze ho via via smesso di preoccuparmi troppo per ciò che mi accade. Chiamatelo “fatalismo” o forse un cinico meccanismo di auto-difesa, non importa, negli ultimi 3 anni mi ha aiutato molto a tenere a bada la mia innata ipocondria, che altro non è che la preoccupazione per il proprio stato di salute, più futuro che presente (la domanda cardine dell’ipocondriaco è sempre: morirò? Spoiler: a una certa, sì, quindi non ci pensare).
Durante queste settimane ho dovuto prendere una decisione per niente leggera ma necessaria. Avendo compreso quali saranno le difficoltà nel gestire le distanze di sicurezza in una cena domestica, ho dovuto “chiudere” la mia attività di cuoco a domicilio. Dopo i primi 3 anni trascorsi a investire e ad andarci sotto o al massimo in pari, il 2019 e i primi 2 mesi del 2020 avevano trasformato gli sforzi in una fonte di reddito certa. Prima i clienti arrivavano grazie alle sponsorizzazioni sui social, nell’ultimo anno senza dover muovere un dito, con periodi in cui la media di richieste era di 3 al giorno. Un grande risultato personale, devo ammetterlo a me stesso. In questa attività ho investito qualche decina di migliaia di euro (non perché sia figlio di papà, era la buona uscita avuta dopo il licenziamento) ma c’è una fine a tutto e questa pandemia mi ha aiutato a realizzare che era giunto il momento di voltare pagina.
Cosa farò? Non lo so, sto ancora facendo il punto della situazione sebbene laggiù abbia intravisto dei sentieri interessanti da percorrere. Prima di prendere decisioni che mi costringerebbero a investire di nuovo voglio vedere quale sarà l’andazzo, se entreremo in un circolo di chiusure-e-riaperture o se creeremo una “nuova normalità” più stabile (ne dubito, almeno nell’immediato). Ho quindi rimandato i piani principali a inizio ottobre, quando (spero) di trasferirmi in un appartamento tutto per me (attualmente vivo con due coinquiline che sono rimaste dai rispettivi “congiunti” per tutta la durata della quarantena).
In più di 70 giorni stare da solo mi ha aiutato a far prendere ossigeno al cervello, a riprendere vecchie abitudini perse che risalgono ai tempi dell’università (mettere su un disco appena sveglio, leggere e scrivere fino a tarda notte) e ad acquisirne di altre (di base sono un disordinato inveterato eppure da diverse settimane non c’è uno spillo fuori posto in casa).
Ma stare così tanto tempo da solo in casa accompagnato solamente dalla propria voce interiore, con i social come unica finestra sul mondo non è salubre. L’algoritmo di Facebook, ad esempio, crea una bolla in cui sulla home compaiono i contatti con cui si hanno maggiori interazioni, spesso persone con cui si va d’accordo. Se l’accordo è però basato sul continuo riversare nei propri stati l’ansia e la frustrazione, chi non è conscio di questi meccanismi si lascia inghiottire dal buco nero. Tanti miei contatti, anche i più ragionevoli, hanno (giustamente) sbarellato in queste settimane. Negli anni mi sono costruito delle tecniche di auto-regolamento dell’umore e quando è abbastanza chiudo i rubinetti velenosi che inquinano i miei pensieri.
Dicevo, il tempo. L’averne tanto a disposizione (a meno che non si lavori in smartworking che nell’interpretazione all’italiana è una forma di schiavitù ancora più invadente e senza orari) è stato uno dei leitmotiv di questa quarantena. Ma lo abbiamo investito o sprecato?
La pandemia e la crisi economica che si profila all’orizzonte hanno gettato nubi plumbee sul Futuro. O, per lo meno, sull’idea che ci eravamo fatti di Futuro. I giornali, più che a virologi ed epidemiologi danno fin troppo spazio a futurologi d’ogni foggia. Dati sulla disoccupazione catastrofici, PIL a picco, Borsa che “brucia” miliardi (che non sono però ricchezza reale ma previsioni di guadagni mancati. La Borsa è un gigantesco gioco d’azzardo per pochi che crea conseguenze concrete per tanti e la finanziarizzazione di ogni aspetto delle nostre vite ne è diretta conseguenza. Ho perso il lavoro da copy non perché l’azienda andasse male ma perché le stime di crescita e i dividendi degli azionisti erano state ridotte, bisognava quindi ridurre i costi fissi, quindi le persone, quelle di cui sono comunque fatte le aziende. Almeno così recitano gli slogan motivazionali). Tutto verosimile ma le stime catastrofiche ci servono davvero? Il Futuro ci ossessiona, il Futuro ci preoccupa.
Fermi. C’è una parola fondamentale. Il verbo Preoccuparsi. Abbiamo mai riflettuto sul suo significato e il modo in cui lo usiamo? Secondo il dizionario Treccani è mettere in uno stato di inquietudine qualcuno. Ma c’è anche un’interessante sfumatura di senso meno comune, ovvero predisporre una persona a un determinato convincimento o atteggiamento, condizionarne il modo di pensare e di agire. La preoccupazione esercita un’influenza quindi sulle scelte del singolo individuo.
Secondo me è però scomponendo la parola che troviamo la chiave di volta. É composta da un prefisso e un verbo riflessivo: Pre-Occuparsi. Occuparsi prima, in anticipo.
Perché ci stiamo Pre-Occupando del Futuro? Direte, è una cosa normale avere un orizzonte, fissare obiettivi. Immaginare cosa sarà. Sottoscrivo col sangue ma allo stato attuale delle cose, instabili e in continuo divenire, Pre-Occuparci del Futuro rischia di tramutarsi in un suicidio.
Il motivo è semplice: lo stiamo immaginando senza lucidità, imprigionati dalla paura, il cui 90% viene da una comunicazione a mio avviso quasi criminale di tv e giornali. Il malcontento e la rabbia sono contagiosi più del virus e ancor più pericolosi e la velocità delle nostre interazioni quotidiane, basate su social e messaggi istantanei, ci ha resi impazienti e incapaci di comprendere (o ricordarci) che certi grossi problemi non si risolvono con un click o in 15 giorni. Ci vuole diplomazia, calma. E Tempo.
Quando è iniziata la quarantena era tutto un coro speranzoso su come poter trasformare questa reclusione forzata in un’occasione per riflettere sulla Vita di Prima, per poterla ristrutturare. Quella vita in cui ogni aspetto era sottomesso a un costante bilancio tra costi e ricavi e l’unica via per migliorare la propria condizione materiale era contrarre debito (mutui che sono affitti alle banche per una casa migliore, per un’auto migliore, per le vacanze più belle, per il telefono nuovo di zecca. La nostra vita è una concatenazione di debiti che spesso costringono a svolgere un lavoro alienante per realizzare un obiettivo: estinguere debiti, a volte decennali). Ovviamente, col passare del tempo, questa riflessione sembra finora fallita o per lo meno sopita.
In molti stati passivo-aggressivi (filone stilistico molto battuto su Facebook) ho visto citare spesso Darwin con disprezzo per condannare la competizione sociale. Chi scrive cose simili è un imbecille. Darwin non ha mai postulato che in natura fosse il più forte a “vincere” come vuole la gara neoliberista bensì che fossero gli esseri viventi più abili nell’adeguarsi alle mutevoli circostanze ambientali a sopravvivere. Richiama concetti nobili come adattamento, evoluzione, quindi miglioramento. Una prospettiva contrapposta e dolorosa rispetto alla confortante ma ormai obsoleta narrazione del posto fisso e di una vita monodimensionale come quella dei nostri nonni e (anche) dei nostri genitori con cui molti di noi è cresciuto. Dobbiamo adeguarci, ora più che mai, e metterci nuovamente in discussione. E non lo affermo a cuor leggero, a quasi 37 anni sono stanco di ricominciare (quasi) da zero, ma così è.
Dovremmo quindi smettere di Pre-Occuparmi di ciò che sarà. Nessuno può saperlo oggi, neanche virologi e funzionari di Borsa. Abbiamo ancora il cuore radicato nella Vita di Prima ma dobbiamo lanciare il cervello oltre l’ostacolo. L’emotività va quietata. Ciò non significa smettere di provare emozioni ma gestire con la ragione il costante flusso di sensazioni, spesso contrastanti, che ci travolge. Ci stiamo Pre-Occupando del Futuro a discapito del Presente.
Non Pre-Occuparsi del Futuro non vuol dire smettere di fissare degli obiettivi, bensì darsi delle linee guida flessibili e agili pronte a essere riviste all’istante. Adattabili alle circostanze. Non Pre-Occuparsi del Futuro significa non predisporci a un determinato convincimento o atteggiamento, condizionando il modo nostro di pensare e di agire. Significa non autoconvincerci che sarà per forza tutto uno schifo. Ci costringe quindi a pensare al Presente per cogliere ciò che di buono e potenzialmente utile ci passa sotto il naso. Anche la perdita del lavoro può essere un’occasione, lo affermo per esperienza personale. Se ci si Pre-Occupa di qualcosa che non è ancora avvenuto (e che potrebbe non accadere mai, l’ipocondria non ha solo forma salutista ma anche lavorativa, interpersonale) non avremo nulla su cui edificare il Futuro, quando arriverà.
Non voglio dire a nessuno come vivere e quali strade intraprendere anche perché io ho un percorso tutto mio (studi umanistici, 12 anni di recensioni musicali sul web, quasi 20 anni trascorsi a suonare, tanti lavoretti manuali, 5 anni da copywriter, trasformazione in cuoco da autodidatta), ognuno dovrebbe conoscere se stesso per adoperare le giuste scelte. Di certo coltivare interessi individuali è fondamentale. E quando si è costretti a cambiare vita, l’idea può nascere anche da un innocuo hobby. Ci hanno educati con il dogma della Specializzazione ma sono la Trasversalità e la Multidisciplinarietà a fornire un salvagente, più che mai nei prossimi mesi quando servirà reinventarsi. Se investi ogni energia, ogni speranza, ogni pre-occupazione in un solo campo, quando questo ti si sgretolerà tra le dita ti sentirai perso, al capolinea.
La lezione apparentemente ovvia di questo (primo e sicuramente non ultimo) lockdown è che nulla va dato per scontato, che sia il lavoro, il matrimonio, la nostra libertà personale (e lo abbiamo visto), perfino la nostra stessa vita. Tanto meno le piccolezze e le cose banali, sputtanate e scontatissime che “fanno tutti” come scattare una foto al Duomo. Ieri, durante la prima passeggiata in cui ho valicato il confine del mio quartiere dopo 2 mesi di totale accidia motoria. Rivederlo mi ha fatto emergere da una sorta di apnea e ricordato che ogni cosa è di passaggio. Me compreso.