Prima una lessatina di culo, però
Con il blog ho un rapporto conflittuale. Sin da quando l’ho aperto – febbraio 2012, mica ieri pomeriggio, è il progetto più longevo che abbia tenuto in vita finora, sebbene a intervalli a volte molto lunghi – ho alternato fasi di entusiasmo ad altre di disprezzo profondo. I social, Facebook prima e Instagram adesso sono diventati il mio blogging quotidiano, piazza in cui esprimere i miei punti di vista e condividere i miei interessi, sperando di fare un servizio per chi vuole prestarmi attenzione. Un blog è un impegno che può diventare una zavorra, se gestito seriamente costringe ore e ore, se non giornate, a pianificare e realizzare contenuti testuali e visivi, spesso sottomettendo l’estro creativo all’algida regola degli algoritmi della dea SEO.
Io della SEO me ne sono sempre un po’ sbattuto preferendo seguire il guizzo delle parole in libertà (notate, la maggior parte degli incipit delle ricette di tanti blog hanno la stessa frase iniziale che ripete, a mo’ di temino in classe, il nome del piatto). Scrivere, per me, significa colorare fuori dai bordi, non intendo sottomettere la bellezza e la varietà del lessico alla dittatura degli algoritmi dei motori di ricerca.
In questi 8 anni mi sono promesso innumerevoli volte di curare con costanza il sito, ho fallito ogni volta. Di base c’è un “problema” caratteriale: se qualcosa diventa un impegno, un obbligo, mi basta spezzare la routine una sola volta per perderla definitivamente. È l’esatto contrario di ciò che serve per mantenere un “progetto editoriale”, figlio bavoso dell’industrializzazione della creatività. Devo lavorare a mano libera per rendere e mantenere alto l’entusiasmo. Ma forse il trucco è anche non auto-promettersi nulla (prima ancora di impegnarsi col prossimo), dalle auto-promesse nascono aspettative cariche d’ansia che creano voragini di insoddisfazione una volta certificato il fallimento.
Il conseguente e obbligato abbandono dell’attività di cuoco a domicilio a causa dell’impossibilità di mantenere le distanze in un ambito domestico (e non è solo una questione legale ma un dilemma etico con cui ho già fatto i conti), attività che mi ha segnato l’esistenza ma che mi succhiava energie non soltanto fisiche quanto temporali e mentali, potrebbe essere l’occasione adatta per far risorgere questo benedetto blog. Il progetto di ricerca di collaboratori di pochi mesi fa rientrava in una sempre latente voglia di non abbandonarlo alla deriva dell’oblio ma sia alcuni lavori che non sono entrati, sia l’emergenza attuale mi hanno costretto ad accantonare l’idea.
Non mi auto-prometto quindi nulla stavolta, un po’ come il fosco futuro che sorge all’orizzonte con la crisi globale che ci attende, bloggherò alla giornata. Sperando di avere un briciolo di perseveranza.
Ok, lo facciamo sto Polpo alla parmigiana o stiamo qui a tirarci le caccole via Zoom?
E allora, dopo tutta sta manfrina direi che sia giunta l‘ora di andare a fondo nel piatto la cui esistenza è l’origine di questo ritorno in pompetta magna da bicicletta. Così a fondo da farci anche una scarpetta con doppia suola, per assorbire meglio salsa e formaggio filante.
È una faccenda piuttosto semplice che richiede pochi ingredienti – regola: non vi darò mai dosi a meno che non sia strettamente necessario: uscire dalla schiavitù della bilancia, sia corporea che cuciniera, è un ottimo modo per diventare padroni della “propria cucina” – l’unico nodo può essere la cottura del polpo ma c’ho un metodo pressoché infallibile, riprovato diverse con risultati puntualmente ottimi (qui trovate una dimostrazione pratica).
Dai dai dai, che non è la traslitterazione dell’inglese “die” ma significa: Giarratana, datti una mossa.
Perché un polpo alla parmigiana? Per fare l’esoso? No: semplicemente il cervello me l’ha suggerito ripetutamente nelle scorse settimane e quando il cervello m’assilla devo assecondarlo prima di iniziare a Sentire Le Voci.
Cosa ho usato per realizzarlo? Codesti aggeggi:
- Polpo decongelato
- Pomodoro pelato in conserva
- Scamorza fresca non-affumicata fatta dal negozietto vicino casa
- Parmigiano Reggiano stagionato 24 mesi
- Origano
- Olio extra vergine d’oliva
- Mezzo scalogno
- Aglio
- Sale
- Zucchero
Vogliamo tutti che il polpo risulti morbido, in contrapposizione alle durezze che cerchiamo, noi maschietti monelli
Il polpo funziona più o meno come la carne. Perché il polpo verace (magari appena pescato) risulta più tenace? Semplice: come quella degli animali di allevamento, la carne del polpo richiede una sorta di “frollatura” per ammorbidirsi. E questa si realizza congelandolo (dopo averlo eviscerato, pulito e asciugato per bene). Con un abbattitore professionale (che abbatte la temperatura rapidamente creando cristalli di ghiaccio più piccoli tra le fibre muscolari) una volta scongelato il polpo è quasi come appena pescato ma perfetto per ammorbidirsi velocemente in cottura. Con un freezer domestico i cristalli che si formano sono più grandi, il che impoverisce un po’ il cefalopode (ma vale per qualsiasi altro alimento). Ad ogni modo, se non acquistate un polpo già decongelato, un passaggio in freezer lo consiglio senza remore. Non è comunque obbligatorio perché il grosso lo fa la temperatura di cottura.
Proprio come la carne, il polpo ha un’elevata quantità di collagene che tiene unite le fibre muscolari dei tentacoli ed è la proteina-base della sua pelle. Il collagene si scioglie a temperature inferiori a 100° C (la vecchia bollitura è infatti Vecchia), ovviamente dipende dalla bestiuola, se terrestre o subacquea. Per il polpo la temperatura perfetta è intorno ai 70° C (che è anche quella da impostare per una cottura in sottovuoto anche se dipende sempre dalla ricetta e dalle eventuali successive cotture). Si ottiene un polpo morbido ma non sfilacciato e che non si spoglia della pelle esterna (quanti tentacoluzzi ignudi passati per un’improvvida piastra prima di finire sul nostro piatto abbiamo mangiato al ristorante? Io più di quanti ne meritassi).
Fatte queste premesse, posso cucinare.
Grazie per le premesse (in)finite
Il polpo non lo bollo col metodo “tradizionale”. In una pentola, a fiamma spenta, sgarrupo diversi cucchiai di olio extravergine d’oliva e una foglia di alloro. Ci parcheggio il polpo. Accendo la fiamma, media. Il calore graduale inizia a far “sudare” il polpo e a rosolarlo allo stesso tempo. Lo giro un paio di volte mentre lui caccia la sua acqua, che aiuto con un’aggiunta di acqua calda, coprendo fino a metà. Chiudo con il coperchio – che tanti di voi non usano: non è mica un vezzo stilistico ma un attrezzo fondamentale e ahimé molto sottovalutato per le sue funzioni – così da sviluppare all’interno della pentola una camera di vapore che “cuoce” la parte non a contatto diretto con l’acqua di cottura.
In base alla pezzatura il tempo di cottura cambia ma il mio polpo, di circa mezzo chilo, in 25 minuti è pronto. Spengo la fiamma e faccio raffreddare un po’ immerso in quello che da ora in poi chiamerò “brodo di polpo”.
Preparo il sugo di pomodoro. Pelato in conserva. Mezzo cucchiaio di olio extravergine d’oliva giusto per dare un start e rosolare quel mezzo scalogno sopravvissuto chissà a quale entusiasmo culinario (e anche ai recessi più bui del mio frigorifero, spesso covo di reietti e rimasugli che notificano le loro oscure esistenze con segnali olfattivi). Rosolo quindi sto scalogno, aggiungo la conserva, le faccio prendere calore e ci smarmello sopra qualche mestolo di Brodo di Polpo. Quest’addizione è importante per rafforzare il sapore del polpo a operazioni finite (e se avanza ci si fa della sontuosa pasta il giorno dopo: Trve Story).
Il sugo non deve venire acquoso altrimenti divento una belva. Più denso possibile, nel piatto non deve finirci un polpo lacustre. Ci metto una spifferata di origano perché mi piace. Aggiusto di sale (poco) e zucchero (un po’) per regolare l’arrangiamento. Sempre secondo mio insindacabile gusto.
Taglio le scamorzine a fette così (immaginale ste Fette Così, non uccidere il bambino creativo che è in te), tenendole un’ora fuori dal frigo, loro sudicchiano e si sciolgono anche meglio.
Afferro una ciotola di terracotta adatta alle cotture in forno. Accendo il mio forno, che è un po’ scimunito. A 200°C. Cottura sopra e sotto ventilata, ma solo perché ha solo questa funzione, se deve cuocere sia sopra che sotto. Avevo detto che fosse scimunito.
Ah sì, la ciotola: uno strato di salsa di pomodoro polposa alla base, un po’ di Fette Così di scamorzina, il polpo adagiato come un faraone – sebbene poi, nel piatto, sembrerà un feto, un po’ inquietante, me ne scuso – un’altra dose di salsa e scamorzine da ficcare tra gli interstizi dei tentacoli e poi l’immancabile grattugiata di Parmigiano Reggiano. Ci serve la crosta, giovani.
Quindi: 200° C sopra e sotto, tempo non saprei perché io guardo, appena mi sembra pronto alzo a 230°C, gli cafuddo il grill e aspetto finché non si forma sa benedetta crosticina.
Ora che ti ho creata, crosticina, mi sento Dio e devi sottometterti a tutte le mie pratiche (come quella del #CrockMoltoMetal, ad esempio).
Devo dirvi che è una bombetta ad orologeria forgiata da un orologiaio senza orologio al polso? Ve lo dico, pleonasticamente.
La ricetta, come sempre, è copyleft ma se la rifate (personalizzandola), fatemi sapere.
Stay tuna
Il DisConsiglio (perché la musica è come il vino)
Ho scelto questo disco principalmente per il titolo sebbene meriti considerazione da tutti gli amanti delle chitarre e di quel rock in bilico tra il radiofonico e l’alternative-prog del decennio scorso. Gli Amplifier, almeno fino a questo album, hanno raccolto meno di quanto gli spettasse, poi però si sono persi in una pozza di autocompiacimento e penuria di idee.
Amplifier, The Octopus, annata 2011