Questo post è in partnership con Birra Messina
Cos’è la Sicilitudine? Eh, bella domanda. Come si racchiude in una sola parola un universo variegato eppure fortemente coeso di atteggiamenti, modi di fare e di dire, substrati storici che hanno plasmato la proverbiale ospitalità siciliana e coniato una cultura unica nel suo genere, ammirata e spesso invidiata in tutto il mondo?
A ispirarmi questa domanda è stata la nuova Birra Messina Cristalli di Sale. Quello di Birra Messina è un marchio che mi accompagna dall’infanzia, non che la bevessi da bambino, sia chiaro, ma ho un vivo ricordo di quando, nella casa in cui vivevo a Caltanissetta, la bottiglia troneggiava sulla tavola e i miei genitori ne sorseggiavano un bicchiere durante il pasto.
Rincontrarla adesso, da adulto, è stato come rivedere un vecchio amico migliorato nel tempo. Dal colore dorato reso intrigante da una naturale opalescenza e un’etichetta dai ghirigori barocchi ispirati dalle maioliche siciliane, Birra Messina Cristalli di Sale ha un sapore moderno e rotondo grazie alla leggera sapidità conferita dai cristalli di sale di Sicilia. In ogni sorso ci sento le punte levigate delle morbide colline dell’entroterra, la zona da cui provengo, la vivacità delle onde che accarezzano le coste dell’isola per via del sale, il sole che irraggia distese di agrumi che ne traggono linfa restituendo frutti pieni e succosi in quella sua sfumata nota fruttata. Tutto in un solo sorso.
Ma non voglio fuggire dal rispondere alla domanda iniziale. Ho quindi riflettuto e trovato, più che risposte assolute, le mie interpretazioni che da cuoco quale sono non possono prescindere dalla materia con cui ho più contatto diretto: il Cibo.
In Sicilia ogni provincia ha le sue tradizioni, se dovessi usare un “microscopio culturale” vi direi che ogni città, ogni paese, ogni porta domestica che si chiude ne ha una, che difende a spada tratta. Ognuno reinterpreta, trasforma, plasma una materia cangiante com’è il cibo. E ogni interpretazione rivela diversi aspetti di ciò che, per me, è la Sicilitudine: l’arte di arrangiarsi, di sostituire qualcosa di pregiato in sua assenza con un “surrogato”, una sorta di camouflage culinario di cui la cultura gastronomica siciliana è piena.
Proprio per sopperire all’assenza del pesce, fino a non moltissimi decenni fa costoso ed esclusivo (nel senso di escludente), nasce la caponata di melanzane, uno dei miei piatti preferiti. Gli ingredienti base sono: cubetti di melanzana fritti, olive, capperi, pomodoro, cipolla, sedano e un agrodolce di aceto e zucchero. Ci sono poi diverse varianti attestate, quasi una quarantina: ne ho assaggiate con i pinoli, coi peperoni, con agrodolce fatto con miele.
Una delle teorie sulla nascita della caponata – che, con un po’ di fede, è quella a cui voglio più credere – riporta come il popolo dovette sostituire con verdure, più economiche e facili da reperire, la lampuga o capone nella versione popolare di quella zuppa condita in agrodolce che veniva servita sulle tavole dei nobili. Ciò sintetizza, per me, la furbizia e la maestria nel ricreare (o meglio, creare, dato che un povero difficilmente avrebbe assaggiato l’originale piatto nobiliare e quindi avrebbe avuto un termine di paragone a cui riferirsi) un piatto ricco, non solo per la quantità di materia prima utilizzata, ma proprio in termini di gusto e consistenze: la croccantezza del sedano, unito verso la fine della preparazione, la carnosità di capperi e olive che si staglia sulla “cremosità” delle melanzane, prima fritte e poi praticamente disfatte, insieme alla cipolla. E poi l’agrodolce, il sapore che a mio avviso più rappresenta la cucina e, perché no, lo spirito dei siciliani, sempre in bilico tra speranza e disillusione, allegria e malinconia. È perfetto, pochi altri piatti, se fatti bene, mi emozionano tanto quanto.
E non sarebbe l’unico caso di sostituzione di carne o pesce con vegetali: la zucca rossa in agrodolce, ad esempio, un tempo si chiamava Fegato ai Sette Cannoli. La zucca fritta assumeva un colore scuro simile al fegato, veniva poi condita con zucchero, aceto e menta e venduta per strada come “fegato”.
Un altro vessillo della Sicilitudine è, secondo me, l’arancina o arancino: il sesso è determinato in base alla costa occidentale o orientale da cui proviene il parlante (e mangiante).
Anche qui l’origine è ammantata di leggenda: sembra che l’emiro Ibn At Timnah abbia fatto cucinare le prime palle di riso per trasportare, durante le battute di caccia, una versione tascabile del timballo di riso o sartù. E anche qui giunge la mutazione, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto diventa una Cosa Nuova e riutilizzabile, come testimonia ad esempio la cucina da strada palermitana, rigogliosa di frattaglie. Non si poteva gettare via nulla.
L’arancina si mangia con le mani, come nella migliore tradizione popolare. L’imborghesimento generato da numerosi chef che se ne sono appropriati l’hanno privata del contatto diretto con il commensale. Non di rado a Milano ho visto chiedere posate per poterla affrontare, un gesto che andrebbe vietato per legge. Toccare il cibo con mano permette di stabilire un contatto, non abbiate timore di “allordarvi”.
Non tutti sanno, poi, perfino tanti siculi nati e cresciuti “in patria”, che l’arancina a punta (che a Palermo è “abburro” ovvero con besciamella e prosciutto, mentre a Catania è alla carne con un pezzo di spezzatino di manzo al sugo) si acchiappa dalla punta, si capovolge e si mangia dalla base. Come un cono. L’istinto suggerirebbe di mordere subito la punta guizzante come un generoso capezzolo e invece no, perché a volte il siciliano è illogico, la sua Sicilitudine forza la ragione e rimette tutto in discussione, anche il verso con cui si morde un’arancina.
Che è forse il simbolo della ricercata opulenza a tavola quando questa manca nel quotidiano. La frittura che “rende tutto più buono” conferisce una spessa e croccante corazza a quello scrigno dal colore aranciato come un’arancia (da qui il nome). E poi, riso “sporcato” di zafferano ripieno di ragù di carne, nella versione più classica e conosciuta. Ingredienti d’un certo pregio. Ma poi l’arancina ha accolto ripieni dai più disparati, si è sporcata perfino col nero di seppia, è rimasta fedele a se stessa nonostante in grembo abbia portato innumerevoli “figli”. Accogliente e ospitale com’è una terra di confine, da sempre terra di conquiste e di approdo che, ha saputo dare ospitalità allo straniero.