Sotto ho già scritto abbastanza, vi risparmio ulteriori e superflue righe d’introduzione.
SOLITO DISCLAIMER
I prezzi indicati si riferiscono a ciò che ho pagato di tasca mia da normale cliente – quindi, senza mai presentarmi come fudbloggah o presunto tale – e come quota singola. Nei paragrafi non ho menzionato tutte le portate che ho mangiato, quindi le cifre che vedete possono comprendere anche altro. Ho sempre ordinato almeno 2 portate. C’è sempre del vino di mezzo, bottiglia o calice è specificato – per la boccia il prezzo pagato ne comprende una parte “alla romana” – perché chi non beve mentre mangia è un po’ tristomane (ma anche prima, anche dopo).
Non è una classifica – non faccio classifiche – è un compendio in ordine Alla Cazzo. Non ci sono sentenze, solo le mie personalissime opinioni. Se qualche ristoratore dovesse arrabbiarsi: Fatti Suoi: sottoporsi a pareri negativi, e non solo ai “Bene, Bravo, Bis!”, fa parte del mestiere.
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I 12 GATTI PIZZERIA
Corso Vittorio Emanuele II 11, Milano – www.idodicigatti.com
Trovarlo non è semplice, imboscato com’è in un angolo alla fine della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, nel punto in cui s’innesta con Piazza della Scala. Anche le indicazioni non sono chiarissime, ci si domanda se l’ascensore sia quello giusto.
Poi si arriva in questo locale in cui mattoni a vista si alternano a pareti intonacate d’un crema smorto. È sabato, la sala tutti i tavoli sono occupati, la solerzia e l’attenzione dei camerieri funzionano a intermittenza.
Da una pizzeria sita a circa 200 metri dal Duomo di Milano non mi aspetto prezzi in saldo e il copione, infatti, è rispettato. La marinara è la più economica è sta a 8 €, fate un po’ voi. Ma nessuno mi ha costretto a venire qui, ergo non mi lamento, tant’è che concentro la mia scelta sulla pagina più costosa del menu, Le Speciali.
Con la mia commensale prendiamo però prima un antipasto, una tartare di fassona con acciughe del Cantabrico. La carne non ha alcun pregio, sembra insapore, complici anche le alici che la soverchiano con una salinità fuori controllo. Certi ingredienti bisogna saperli combinare bene e avere materia prima d’alto livello per far bella figura. Partiamo maluccio, ragazzi.
Vado sulla pizza, la “12 Gatti”, ovvero quella che in musica chiamerei la title-track. Mozzarella di bufala campana DOP, zucchine grigliate, salsiccia di maialino nero casertano, caciocavallo, basilico. 16 euro.
Com’è? Niente che valga una cifra simile, in bocca dovrei sentire le pepite d’oro ma il tutto si parcheggia su frequenze blande, complici anche le zucchine non ancora all’apice della stagionalità (siamo a marzo). L’impasto è arioso e fragrante, per fortuna non dovrò bere nulla che non siano un paio di gin tonic di piacere, dopo.
Con birra, 38 €.
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AL MERCATO BURGER BAR
Via Santa Eufemia 16, Milano – al-mercato.it/burger/it
In 9 anni di residenza a Milano non ero ancora riuscito ad andare da Al Mercato Burger Bar che è stato il centro di irradiazione, una decina d’anni fa, del trend dell’hamburger gourmet a Milano e, di riflesso, in tutta Italia.
Sono da solo, sarò rapido e indolore. Purtroppo non ci sono i tacos, come mi aveva promesso il sito del ristorante, evidentemente da aggiornare.
Ordino, mi sgranchisco le mascelle.
Panino con tartare di carne, caprino all’erba cipollina e senape forte. Temevo uno strapotere della senape e invece a sgomitare con la carne cruda ci pensa il caprino, la cui quantità offusca la compagna di merende. Nell’insieme però è tutto un bel concerto in bocca, con la carne meravigliosamente tenera. Il bun poi sembra più un sofficissimo ma timidamente croccante in superficie pan brioche con la lieve dolcezza che accompagna bene la farcitura e una per nulla nascosta venatura di burro che rende tutto più amico delle arterie.
Non pago, ordino le frattaglie fritte del giorno successivamente al panino: cervello, fegato, trippa e animella. Cervello e animella sono cremosi sotto l’asciutta e croccante corazza di panko. Nella panatura intercetto una non trascurabile presenza di aglio. La trippa è sottile e nell’estremità s’arriccia un po’, lievemente gommosa e dal sapore netto. Il fegato è anch’esso molto saporito, cotto “à point”. Un pezzetto di cervello però è crudo e lo lascio lì.
Con calice di vino, 30 €.
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TRATTORIA MIRTA
Piazza San Materno 12, Milano – www.trattoriamirta.it
Quando maneggi materia prima di qualità hai già fatto metà del lavoro. Certo, devi metterci anche perizia tecnica e sensibilità, quasi empatia per connetterti all’alimento e interpretarlo per valorizzarlo.
Un buon locale si nota subito da un dettaglio spesso trascurato dai ristoratori: il cestino del pane. Se il pane è buono, è raro che il resto faccia cagare, è un piccolo particolare che dà subito l’idea delle attenzioni che lì dentro si concentrano sulla qualità. E il pane di Mirta, fatto in cucina con misto di farine integrali, è ottimo.
La sala è il compendio perfetto tra la trattoria tradizionale scevra però di pacchiane vetustà ed è molto accogliente come il personale di sala, che dispensa sorrisi al momento giusto e serve con i corretti tempi, coordinando la cucina. Sul menu spiccano alcuni Presìdi Slow Food.
Il paté di fegatini è delicato senza però disperdere la nota ferrosa del fegato, presente senza rendersi disdicevole. C’è equilibrio nell’uso del burro. Il crostino è appena stato accarezzato dal calore e il mosto di fichi, abbinamento prediletto col fegato, completa il quadro.
Saliamo di livello coi garganelli di pasta fresca con ragù napoletano. La salsa ha un sapore deciso, casereccio ma non sgraziato, con una gradevole punta d’acidità. La pasta è cotta perfettamente al dente. Piatto semplice ma di struttura che chiama un altro calice di Gattinara. É luglio, è sera e fuori ci sono più di 30 gradi alle 21.30.
Ma è con il galletto al forno con guazzetto di cipolle e peperoni che la cena raggiunge l’acme, raramente ho mangiato un pollastro che sapesse così distintamente di pollo – e non è una cosa ovvia – e mantenesse una tale succulenza, trasudava succhi a ogni morso con la pelle lievemente caramellizzata ma ancora morbida. C’è un’interessante e lieve sfumatura di carbone. Le cipolle del guazzetto sono ancora croccanti e il sughetto è rotondo e, sebbene non credo ci fosse aceto, un po’ agrodolce, forse per via della sporcatura con il pomodoro.
Entra di diritto tra i miei locali preferiti di Milano, senza se e senza ma.
Con boccia di vino e un grappino disintossicante, 50 €.
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CHEF J
Via Carlo Farini 70, Milano – ristorantechefj.wixsite.com
Io la Manciuria la conoscevo da tempo ma solo per via del Candidato Manciuriano, film complottaro rievocato dagli Slipknot nel verso di una loro canzone, Wait And Bleed per essere precisi.
Non essendo mai stato in Cina, ancor meno che in Manciuria, non posso dirvi se la cucina del simpatico Chef J, che a fine serata compare in sala piccino e smilzo dentro la sua maglietta bianca fuori taglia, sia fedele alla linea, ma posso affermare che il mio palato occidentale ha apprezzato.
Tavolata a 5, me compreso, si opta per un Falla Girare così si assaggia di tutto un po’. I ravioli di maiale alla piastra sono incandescenti ma il ripieno è sostanzioso e ben armonizzato, apprezzo parecchio la punta di zenzero che spicca qua e là.
Non impazzisco per gli spiedini di pollo, alquanto ordinari, ma frizzo abbastanza con le polpette, anch’esse servite a temperatura da tempesta solare, morbidissime all’interno e, per fortuna, con poco pane nell’impasto, espediente villano che tanti ristoranti adottano per ridurre i costi.
Il servizio è rapido, tant’è che il tavolo, in meno di mezz’ora, trabocca di portate. Altro bel colpetto è il maiale in salsa agropiccante, sfilaccini tanto cotti da sciogliersi in bocca e il condimento che un po’ pizzica senza rompere il cazzo e un po’ stuzzica con quell’agrodolce che resterà sempre il connubio di sapori che più mi manda fuori di zucca.
Con (diverse) birre, 30 €.
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IL BISTROT DELLA PESA + ANTICA TRATTORIA DELLA PESA
Via Pietro Maroncelli 1 / Viale Pasubio 10, Milano – www.anticatrattoriadellapesa.com
Parlo di entrambi nello stesso pezzo perché alla fine sono la stessa cosa. Uno è il bistrot ma che ha prezzi da ristorante, l’altra è una trattoria con prezzi da ristorante. Il risultato non cambia.
Procedo per gradi. Il bistrot. Ci porto mia madre a pranzo, siamo in pieno inverno quindi non rinuncio alle calorie. Non che in estate esista per me ci siano deterrenti. Ordino un flan di carciofi con fonduta di formaggio, che è poi la fonduta universale che usano anche per il piatto che prenderà poi mia madre, un risotto al radicchio. Buono ma non eccitante.
Va un po’ meglio col riso al salto con rognone trifolato, grande classico della cucina milanese, il risotto è croccante e burroso – e di burro ce ne vuole parecchio – il rognone ha un sapore tutto sommato delicato, ben pulito che evita il rischio di piscio-in-bocca.
Solo un calice di vino, 51 €. Alla faccia del bistrot.
Alla Trattoria, un paio di mesi dopo, però, va peggio. Ci porto amici in visita dal Cilento che vogliono mangiare una buona cotoletta. Prenoto ma francamente non so come sia la cotoletta lì ma avendo mangiato non poi così male al bistrot, mi fido.
Mai scelta fu più sbagliata. Andiamo dritti al dunque, niente antipasti, diretti verso l’oggetto dei nostri desideri che qui ha un prezzo da gioielleria: 30 euro. Ci aspettiamo quindi funambolismi.
Se avessero impanato dell’aria sarebbe andata meglio. Carne del tutto insapore di qualità infima, nessuno di noi quattro comprende con certezza se sia maiale o vitello (eravamo 3 cuochi al tavolo), tanto che dobbiamo chiedere a un cameriere. Vitello. La panatura si scolla dalla carne, non un bene e non è nemmeno così croccante. Eccetto le dimensioni, non c’era nulla di importante nel piatto. Accanto ci siamo fatti dare una porzione di purè di patate a testa, 7 euro per un mestolo e mezzo a testa.
Molti di voi non avranno confidenza coi prezzi della merce all’ingrosso per i ristoranti, ben diversi da quelli del supermercato e dei mercati perché tarati su volumi più ampi. Abbiamo fatto un calcolo forfettario, tra cotoletta e purè c’erano, a farla cara, 3 euro di food cost a fronte di 37 euro ciascuno di conto, che sono diventati 50 con coperto – 4 euro a testa con un cestino di pane di qualità-discount – e il vino (alla fine, un calice a testa da una bottiglia di Barbera d’Asti).
Non ci rimetto mai più piede.
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ZIBO – CAMPO BASE
Via Caminadella 21, Milano – zibocuochiitineranti.it
Vinsero un programma tv, la Street Food Battle e di premi ne hanno beccati altri quando erano solo un truck itinerante che proponeva ravioli con ripieni di alcuni piatti della tradizione italiana.
Durante un Milano Film Festival ricordo di aver assaggiato i loro ravioli alla carbonara e rimasi estasiato. Serbando un ricordo non da poco, vado con un amico a testare il loro ristorante, chiamato Campo Base, a quasi due anni dall’apertura – io nei locali appena aperti ci vado raramente, preferisco testarli quando la cucina si è ben assestata e soprattutto per vedere se sopravvivono nel tempo.
Se gli arancini (micro) con asparagi e fonduta di taleggio non sono poi così male, mi aspettavo guizzi maggiori dai nuggets di pollo ruspante, marinati in soia e zenzero e accompagnati da una salsa thai un po’ piccante d’accompagnamento, sulla carta i sapori dovevano non dico ribaltarmi ma quasi. Il fritto, nelle ore successive, mi si riproporrà, segno che qualcosa è andato storto.
Assaggio due tipi di ravioli. Da siculo testo quelli con la sarda a beccafico, in cui un eccesso di uvetta infligge una dolcezza quasi stucchevole al ripieno. Il crumble di pane che dovrebbe sostituire la classica “muddica” abbrustolita è un po’ untino e il piatto di per sé è troppo secco, senza creme o salse che lo accompagnino. Non ci siamo.
Riprovo i ravioli alla carbonara, vero vessillo di Zibo. Anche qui c’è stata un’involuzione, il ripieno di pecorino è palesemente allungato con un bel po’ di panna che rende meno irruento il sapore del formaggio – non sia mai che la delicata clientela milanese inorridisca. Di pro c’è che la sfoglia della pasta, sebbene abbastanza spessa, in bocca è piacevole e ben cotta. Per il resto, per me è no. E mi dispiace molto.
Con birra, 35 €.
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ACCADEMIA LIBANESE
Via Accademia 53, Milano
L’ambiente è casereccio abbastanza da tenere lontani gli amanti dei localini trendy. Anche l’accoglienza è un po’ spiccia all’inizio ma devo star simpatico alla titolare, matrona che gestisce la sala, sotto quell’aria arcigna rivela sorrisi spontanei alle mie puntuali idiozie.
Il menu non riserva grandi emozioni, nel senso che è un po’ tutto in linea con la maggior parte dei ristoranti libanesi a Milano.
Molto buoni i falafel coperti da una salsina allo yogurt, ancora meglio gli involtini di riso in foglia di vite, arricchiti da una nota acidula conferita dal succo di limone. Hummus onorevole ma niente di che, gli spiedini di agnello, sebbene non siano di prima scelta, hanno mantenuto i succhi e il sale è stato gestito con parsimonia, dettagli non secondari quando si affronta una portata di carne.
Con una bottiglia di vino libanese senza infamia e senza lode, 31 €.
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GIOLINA
Via Felice Bellotti 6, Milano – giolina.it
L’ambiente è gradevole e ben fatto ma dispersivo, la sala è troppo grande per i pochi tavoli che ci sono, da un lato i clienti possono parlare comodamente senza essere origliati dai vicini – sempre che si mantenga un volume consono alla convivenza sociale – ma dall’altro si avverte un leggero senso di vuoto spaziale. Facezie.
Piuttosto, dal menu si evince una ricerca della materia prima che guarda molto alla Campania. D’altronde questa è pizza dichiaratamente napoletana.
Sono con un’amica inizialmente recalcitrante sull’ordinare un tagliere di salumi come antipasto temendo che possa toglierci l’appetito prima della pizza. La rassicuro, nonostante fosse la prima volta per me lì, intuivo che le porzioni non sarebbero state da vomitorium romano.
E infatti, tagliere normale per la grassofobica clientela milanese. La qualità però c’è e tutti e quattro i salumi – coppa piacentina, lardo, crudo, salame felino – sono eccezionali, si sente che il prodotto è passato dalle mani di professionisti della norcineria. Anche la focaccia calda d’accompagnamento, sicuramente fatta in loco, se la sente, croccante e saporita senza eccesso di sale.
Stuzzicato dalla presenza del salame d’oca, ordino una Sandrina. Ci sono anche friggitelli, fior di latte d’Agerola. Se l’impasto è una nuvoletta con delle belle camere d’aria nel cornicione, nulla da eccepire pure sulla qualità dei condimenti – il salame d’oca ha un’interessante nota acidula – ma la loro quantità è davvero ridicola. Ora non voglio fare il cazzo di meridionale che si lamenta della milanesità, che giù è tutto più buono e generoso, però veramente, lo dice la foto, quanti milligrammi di roba ci sono su quella pizza? Sei-fettine-6 di salame stretto 2 centimetri, 2 friggitelli divisi per grazia divina, non pretendo che mi arrivi una bomba nucleare che trasborda condimento ma calategliene un po’ di più, sono pur sempre 13 euro a pizza, non me la state regalando.
Digestione quasi inavvertita, segno di una buona lievitazione.
Con doppia birra, 29 €.
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AMOR
Corso Como 10, Milano – www.alajmo.it/it/sezione/amor/amor
Ciò detto, Amor non mi paga per prenderne le difese, tutt’altro, i soldi glieli calo io. Il progetto è molto semplice: i fratelli Alajmo, 3 stelle Michelin con il ristorante Le Calandre di Padova, dopo 12 anni di ricerche hanno trovato la loro formula per la pizza al vapore. Riprendendo un po’ il concetto del bao, per capirci. Il sito definisce il format “fast-casual”, le solite vacuità del marketing contemporaneo.
É l’ora pranzo, il sole di luglio è un reattore nucleare a regime, fa caldo e io sono in zona a fare spesa. Entro. Sul menu ci sono anche calzoni e pizze tonde con base croccante. Voglio assaggiare un po’ di tutto. Ordino alle solerti e gentili cameriere una margherita al vapore, un calzone ripieno di funghi, prosciutto e burrata e una pizzetra croccante con uovo, bacon e cipolla al balsamico. Pago e mi accomodo.
I tre pezzi si rivelano interessanti da un punto di vista tecnico e delle consistenze, che era un po’ ciò che mi attendevo.
Il calzone (chiamato “masscalzone”…) ha una farcitura ricca in proporzione alle dimensioni e l’esterno è croccante e l’olfatto retronasale mi restituisce la piacevole biscottatura della crosta. Gli ingredienti denotano cura nella scelta, soprattutto il prosciutto.
Il colpo gobbo è però la pizza croccante con l’uovo all’occhio di bue sopra, lasciarmi sfuggire un’occasione così ghiotta per immortalare la colatura del tuorlo sul piatto sarebbe stata follia, infatti addento di fronte al cellulare. Ma tolto il teatro resta un interessante commistione di sapori tra la dolcezza della cipolla, la sapidità affumicata del bacon e la grassa gentilezza dell’uovo.
Non sporco neanche una posata, mangiare pizza e calzoni senza le mani è da cacasotto ipocondriaci e untofobici
Sono abbastanza appagato, riempito il giusto e il conto è 18 euro. In qualunque pizzeria, a Milano, pagheresti di più, sent’ammé.
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BEIJING TRADITIONAL ROLL
Via Paolo Sarpi 29, Milano
Nella sempre frizzante via Paolo Sarpi, epicentro della Chinatown milanese, è sbucato da qualche mese questo “laboratorio con affaccio su strada”, sulla scia del successo della Ravioleria. Dietro il bancone tre signore cinesi, con movimenti rodati da anni e anni, impastano, spianano, tagliuzzano e confabulano in lingua madre.
Cosa si fa da Beijing Traditional Roll? Dei roll pechinesi, appunto, una sorta di piadina-crepe farcita e poi arrotolata. La peculiarità è che, tra polpette di pesce e radice di loto e manzo stufato e pollo fritto puoi farci parcheggiare anche della meravigliosa trippa d’anatra con salsa piccante.
Tutti i condimenti fanno bella mostra di sé proprio sul bancone. la signora che mi intruscia il roll non lesina la salsa piccante, poi schiaffa cipolle crude, coriandolo, cetriolo e una roba che ha tutta l’aria di essere tofu, notoriamente ininfluente nel sapore complessivo.
La trippa d’anatra è delicatissima e dalla consistenza cartilaginea gradevole, il vero problema, per me che non abuso mai del piccante, è la salsa che è micidiale, dopo 3 morsi mi ottenebra le papille. Ma è una sofferenza piacevole, un simpatico assalto ai recettori e alle mie ghiandole lacrimali.
Costa poco, 5 €.
Stay tuna