Avevo giurato solennemente che la Guida Minchiolìn sarebbe morta con l’ultimo post di febbraio scorso ma, preso dall’euforia della nuova impostazione del blogghe (avete fatto un giro sul sito?) e i messaggi di diversi tra voi Follouà che mi hanno minacciato di fondere le lame dei miei coltelli e farci un vitello tonnato da adorare, ho deciso di riprendere a raccontarvi i miei blitz sulle tavole dei locali meneghini (ma non solo, ecco la gnus).
In questo numero ci sono due-tre posti che non dovete perdere e almeno uno da cui girare alla larga. E per alla larga intendo alla larghissima.
SOLITO DISCLAIMER
I prezzi indicati si riferiscono a ciò che ho pagato di tasca mia da normale cliente – quindi, senza mai presentarmi come fudbloggah o presunto tale – e come quota singola. Nei paragrafi non ho menzionato tutte le portate che ho mangiato, quindi le cifre che vedete possono comprendere anche altro. Ho sempre ordinato almeno 2 portate. C’è sempre del vino di mezzo, bottiglia o calice è specificato – per la boccia il prezzo pagato ne comprende una parte “alla romana” – perché chi non beve mentre mangia è un po’ tristomane (ma anche prima, anche dopo).
Non è una classifica – non faccio classifiche – è un compendio in ordine Alla Cazzo. Non ci sono sentenze, solo le mie personalissime opinioni. Se qualche ristoratore dovesse arrabbiarsi: Fatti Suoi: sottoporsi a pareri negativi, e non solo ai “Bene, Bravo, Bis!”, fa parte del mestiere.
***
HUAN
Ripa di Porta Ticinese 69, Milano – www.huanmilano.com
La cucina è di declamata ispirazione cinese per via dei soggiorni orientali dello chef, che però è casertano. Riuscireste a partorire un menu in cui s’intrufolano reminiscenze campane in mezzo a marinate umami, dumpling e bao? Voi magari no, ma Giorgio Bresciani sì.
L’opzione migliore per non farsi travolgere dall’inevitabile indecisione alla lettura del menu – non biblico come nei consueti ristoranti cinesi ma ricco di spunti interessanti – è lasciar fare alla cucina. Sono da solo ed emetto sentenza: menu degustazione, che sono 5 portate “alla cieca”.
Il benvenuto è un intrigante bao allo zafferano ripieno di ossobuco. Siamo a Milano, omaggio obbligatorio.
Nel quintetto di dumpling schierati su un piatto rettangolare a vincere sono quello con pollo, cipollotto, zenzero, topinambur e salsa al pepe nero dalla sfoglia fritta croccante e asciutta e il gambero al lime molestato da una lasciva maionese piccante che pizzica quel che basta per stuzzicarmi una lieve eccitazione. Ma non ci saranno attività soliste in pubblico.
L’autumn roll ripieno di mazzancolle marinate all’aceto tosazu, alga nori e crauti allo zenzero si bagna nella tazzina – ceramica cinese veramente pettinata – da cui fuma il brodo delle mazzancolle versatomi direttamente dal cameriere, molto attento e per niente invadente. The coi biscotti all’orientale, insomma.
Se le capesante con crema di taro affumicato, shiso e funghi shiitake sono avvolte da frequenze troppo scure senza che nulla le rischiari e risultano poco interessanti, i due colpi successivi sono d’alto bordo: orata con pelle croccante e polpa tenace cotta alla perfezione che va a braccetto col leggero umami di una glassa di brodo di funghi cardoncelli. Poi c’è la guancia di maialino morbida come il burro che viaggia in un andirivieni di dolce/salato/piccante grazie ai piccoli cubetti di zenzero candito.
La degustazione dovrebbe finire qui ma non mi è giunta la portata a cui più ambivo. Così la ordino: bao ripieno di coniglio all’ischitana e scarola. Detonante ed elegante nel contempo.
Chiuderei battenti volentieri, anche perché avevo chiesto un calice di vino ma a tenermi compagnia c’è stata una mezza bottiglia di Etna Rosso lasciatami (volutamente?) sul tavolo dal cameriere che arriva e mi domanda: e il dolce non lo vuoi?
Ok. Spuma di the nero e pasta brisée arricchiti dal particolare tocco del gelato allo zenzero.
Il menu è 45 euro, andando oltre con bere e due portate in più, arrivo a 75 €.
***
ANCHE
Via Carmagnola 5, Milano – www.anche.it
A Milano sbucano locali come funghi a qualunque angolo, a qualunque latitudine e longitudine, in tutte le strade, in ogni quartiere. Negli ultimi anni Isola si sta ritagliando spazio tra le Mecca dei ristorantini trendy.
Anche è la prosecuzione del piccolo forno che sforna pizzette fino a tardi in via Carmagnola, giusto accanto.
La sala, divisa in due moduli e che conterà in tutto circa 40-50 posti, ha pareti scure dal tocco industrial-austero, i tavoli sono distanziati per poter mantenere un briciolo di privacy.
I camerieri non spargono sorrisi neanche dietro corruzione, il menu non offre grandi guizzi creativi.
L’antipasto sono dei crostini – che dovrebbero essere caldi ma in cucina hanno dimenticato il passaggio sulla piastra – con una striminzita lappata di robiola (per darvi un’idea della “striminzita”, su quattro pezzetti di pane avranno usato complessivamente un quarto di cubetto di quelli che vendono al super) e una o due fette di mortadella prontamente divise in quattro. Tutto ciò al modico prezzo di 10 euro.
Il risotto – chiedo se il brodo è di carne ma il cameriere mi dice che è fatto “col bollitore”: boh – con zafferano e parmigiano potevo farmelo a casa e sarebbe venuto una spada, avverto solo le laute scorribande di formaggio e burro per camuffare l’anima insipida di un qualcosa fatto un po’ a caso. Il riso, per fortuna, non è scotto.
Assaggio gli spaghetti con ragù di polpo e polipetti della mia commensale. Come nel riso, il sale è latitante e il sugo asciuttissimo e intriso di tristezza.
Non vale i 30 euro di conto a persona.
***
AL VECCHIO ARATRO
Via Boiardo 20, Milano
Definirlo ruspante è un simpatico eufemismo, non solo per le proposte ma anche per il servizio, abbastanza alla buona. Dal tavolo assisto a un battibecco tra la cameriera e il cuoco – che suppongo siano moglie e marito – ma solo dalla prospettiva della cameriera che si sporge con posa da Gorgone verso l’ingresso della cucina sputando fiamme e abbozzando una mandata affanculo con la mano. Aria di casa.
E questa atmosfera domestica traspare dal menu chilometrico (ci sono “solo” 39 primi), in cui c’è parecchia Calabria. Prezzi super-pop, antipasti in media sui 4 €, primi che oscillano tra i 6 e i 9 €. Ordino pasta con polpette alla calabrese, come si nota dalla diapositiva qua sopra tutto fuorché fotografabili, le polpette sono due asteroidi atterrati con schianto tra i fusilli. C’è una punta di sale in più e anche la pasta poteva venire fuori dall’acqua qualche istante prima. Le polpette a tratti sono un po’ tenaci. Insomma, siamo un po’ lontani dai capolavori.
Il secondo, sul menu è “cotoletta alla bolognese” ma del piatti tipico felsineo non ha nulla, se non la frittura. É in realtà un cordon bleu fritto fino alla soglia della sopportazione farcito con formaggio non meglio identificato e prosciutto. Lurido e senza compromessi ma c’è di meglio in giro.
Arrivo alla fine col fiatone, soddisfazione a metà. Un anno la qualità era più alta.
***
ASSAJE
Piazzale Segrino 1, Milano – www.assaje.it
Qui non si prenota, come consuetudine delle pizzerie napoletane. È mercoledì e se fuori la fila lascia presagire un paio d’ore d’attesa, per intercessione di qualche oscuro arcangelo, in dieci minuti d’orologio sono già seduto insieme a una coppia di amici.
Se l’attesa è stata snella, di contro il servizio è pressante travestito da un atteggiamento da amiconi di vecchia data. Una cosa che trovo francamente insopportabile. A turno due camerieri si avvicinano al tavolo tre volte nel giro di cinque minuti per chiederci se possiamo ordinare. Confesso di sentirmi in questura e glielo dico. Battuta accolta con una risatina dolente. Mi bastano le ansie del lavoro quotidiano, pure per mangiare una pizza, no. Se la battuta è ficcante è anche efficace, capiscono che al tavolo tutte queste finte accortezze non sono gradite. E la pressione si allenta.
Ci viene offerto un piatto di zeppole fritte incandescenti, pratica che vale per tutti gli altri tavoli: untissime e crude all’interno. Ok, è offerto.Le pretese però arrivano con gli antipasti che finiranno sul conto. Arancinetti da dimenticare, frittatina di pasta invero un insulto alla tradizione partenopea, i bucatini scottissimi sono impastati con un malinconico formaggio acidulo che sembra caprino. Si aggiunga il ragù o presunto tale dal sapore bruno che richiama quasi il fegato. Gli antipasti non sono il loro forte.
Una scorsa alle pizze. Si punta molto sull’ingrediente di qualità ma senza tenere conto della stagionalità (fioccano fiori di zucca, zucchine e ciliegini in pieno inverno), spesso indicando Presìdi Slow Food ma latitano combinazioni creative da paura che giustifichino 18 euro per una pizza (c’è un nugolo di 5 esemplari sul menu). Ormai specificare zona geografica o nome del caseificio, anche se il cliente non sa neanche minimamente dove si trovino Agerola o Bronte, così come piazzare la parolina magica “gourmet”, fa schizzare all’insù il termometro dei prezzi.
Opto per una da 12 € con melanzane alla parmigiana (dodici euro per un quinto di una melanzana a cubetti sporcate di sugo) e chiedo di aggiungere del prosciutto cotto. Il tempo di servizio è un po’ lungo ma non ho fretta. La pizza arriva senza cotto, lo faccio notare al cameriere che porta indietro la pizza e la riporta al tavolo col prosciutto parcheggiato sopra. Non volevo che me la rifacesse ma a sto punto preferivo senza, tant’è che tento di fermarlo. Amen. Mangio lo stesso e devo dire niente male, non la pizza della vita ma nemmeno da bassi fondi. Inoltre la digestione, fattore sempre fondamentale, non dà alcun disturbo.
Con birra, 22 euro alla cassa.
***
LA BETTOLA DI PIETRO
Via Orti 17, Milano – www.facebook.com/labettoladipiero
Cucina di stampo milanese con occhio verso il Piemonte, la signora in sala ha origini sabaude e ci tiene a dircelo – sono con altri 4 amici – spiegando poi per filo e per segno ogni preparazione.
C’è un bel girello di antipasti, la tartare di cavallo con tuorlo crudo sprizza amore da tutti i pori mentre le alici del Mar Cantabrico con bagnetto verde percorrono la sempre apprezzata linea del salato-acido sospinta dal croccante peperone sott’aceto. C’è anche il tonno di coniglio, un piatto freddo tipico piemontese che sono straccetti di carne del simpatico roditore cotti e poi messi sott’olio con verdure, si chiama così perché assume l’aspetto della conserva di tonno. Avendolo mangiato durante l’ultimo #TonnoInTour piemontese questa versione è molto fedele all’originale.
Sono stato avvertito dei lunghi tempi di preparazione del Rustin Negàa, che però mi arriva quando ormai i miei amici hanno quasi pulito il piatto. Ricetta tipica milanese quasi sparita anche dalle trattorie più veraci, è un pezzo di carne alto quasi 8 centimetri con tanto di osso brasato e cotto a fiamma bassa con una tonnellata di cipolle.
La carne si stacca dall’osso con un lieve tocco della forchetta ma per arrivare alla fine mi ci vuole uno sforzo sovrumano, è davvero tantissimo e dal sapore imponente. Sventolo bandiera bianca ma solo di fronte a, credo, due-tre forchettate, sono sudato e affranto per la disfatta ma avete poco da fare gli spavaldi e deridermi, voi. Fatelo dopo una schiera di antipasti e vediamo se rientrate a casa con le vostre gambe.
***
CROSTA
Via Felice Bellotti 13, Milano – www.facebook.com/crosta.milano
Nel mare magnum di pizzerie che ricusano le tipologie canoniche con ingredienti ricercatissimi, lievitazioni che ci vuole una settimana di ferie e farine extraterrestri, Crosta, che nasce da un’idea di un panificatore/pizzaiolo siciliano, fa le cose un po’ più semplici.
Le pizze sono piccine a fronte di prezzi inversamente proporzionali (gli spicchi arrivano già tagliati e debitamente distanziati come vuole la filosofia gurmé, se uniti fanno una pizza da circa 20 centimetri di diametro con costo medio di 11 euro), se siete affamati due potrebbero tapparvi i buchi. Due pizze.
Sono con una delle mie due coinquiline e decidiamo di dividerne una ciascuno. Gran bel colpo quella con broccoli, pancetta e fior di latte, il salume espone tutta la sua porcilaggine e untuosità dimostrando di essere stato prodotto con piglio artigianale. Leggermente indietro quella con friarielli, provola affumicata e crema di acciughe del Cantabrico, quest’ultimo ingrediente un po’ troppo invadente.
C’è ancora appetito. Ordiniamo una margherita, da dividere. Non male, neanche la margherita della vita.
L’impasto di tutte le pizze – grano tenero piemontese, grano duro siciliano – ha la leggiadria di una danzatrice classica e nonostante il carico esco fluttuante, la digestione non la sento nemmeno.
Sul menu spicca anche una pizza con ananas che provo successivamente un mese più tardi. Ci stanno anche ventricin, cipollotto a e coriandolo, un mix di sapori che sulla carta rischiano di cozzare e invece c’è un equilibrio elegante in cui l’ananas fa da vettore agrodolce che pulisce la bocca dalla suina piccantezza della ventricina e dal sentore di saponetta del coriandolo. Dovreste provarla per abbattere i vostri pregiudizi.
Una pizza e mezzo a testa e una birra, 22 €.
***
KILIMANGIARO
Via Felice Casati 9, Milano
Tra le viuzze che venano Porta Venezia c’è una folta schiera di ristoranti di cucina africana, soprattutto eritrea.
Se la sala di Kilimangiaro è più simile a un bar, in cucina non si cazzeggia. La padrona di casa gestisce comande e detta i tempi di preparazione mentre il marito, con una gentilezza mai affettata e fuori luogo, guida alla scelta.
Sono con 4 amici che decidono di ordinare dei sambusa come antipasto, che poi altro non sono che dei samosa indiani ma fatti veramente bene e accompagnati da una salsina piccante che un po’ mi fa lacrimar. Il fritto non ha tracce d’olio.
Tra i pochi tavoli i clienti sono tutti italiani e da buoni fighetti usano le posate. In Eritrea per far fuori lo zighinì si usa il l’enjera, pane dalla consistenza simile a una crepes usata sia come posata che come piatto. Pensate che mi sarei fatto sfuggire l’occasione di violare le regole del galateo occidentale con la scusa del rispetto delle tradizioni del luogo d’origine? Rido. Autorizzato dalla cultura eritrea, vado di mani attingendo dai due piatti.
Lo zighinì è in buona sostanza uno spezzatino di carne o pesce, noi andiamo di agnello, manzo e pollo. Tutti i tipi di carne sono morbidissimi e dal sapore rustico e nascondono un tesoro: sono adagiati sopra fette di enjera che, alla fine, sono imbevute di sughetto. Devo dirvi che sul piatto non è rimasto nulla e che non vi alzerete neanche lontanamente con un po’ di spazio vuoto in pancia? Se proprio devo, ve lo dico.
Con vino, 31 €.
Stay tuna