Questo è uno dei miei piatti supermegayeah. Una di quelle creazioni di cui vado fiero, mi gonfio il petto, mi guardo allo specchio e lo sbaciucchio lasciando l’orma delle mie labbra raggrinzite come la buccia di una melanzana grigliata e pettino poi le piume della coda di pavone tonnato che schiudo per dirmi da solo, nel bagno di casa illuminato dal neon fluorescente, quanto sono ganzo quanto figo.
Avendovi descritto questa pratica di giubilo e sommo gaudio a cui mi dedico ogni qualvolta imbecco l’idea giusta, quella che non si guasta dopo pochi giorni, mi tocca raccontarvi la genesi di questo piatto.
Tutto nasce con queste arancine. L’idea di base m’è venuta da qui. Volevo realizzare delle palle di riso diverse dal solito e l’uso del nero di seppia, che avevo visto una volta in un’arancina mangiata in Sicilia, fu il punto di partenza.
Essendo da sempre attratto dal gioco carne-pesce, connubio in cui gli equilibri sono delicati e complessi, pensai senza nessuna logica apparente che spingendo sull’acceleratore del piccante avrei trovato la chiave di volta. Mi fu quindi spontaneo infilare nel ripieno, insieme a seppia e asparagi, della nduja, pasta di ciccia de puerco impastata con peperoncino.
Ma preparare arancine o arancini che dir si voglia non è pratica da poter fare ogni giorno per il semplice fatto che richiede parecchio tempo. Ma avendo trovato la coppia seppia (con nero) e nduja efficace, ho iniziato a pensare a come declinarla in un’altra dimensione.
Un primo tentativo fu con degli spaghetti solo con nero e nduja ma mancava qualcosa. Il piatto era incompleto e mancava di rotondità e profondità.
Accantonai l’idea per qualche settimana, poi ci ripensai all’improvviso e mi resi conto che avendo già testato col riso, perché cazzo avrei dovuto usare la pasta?
Ok, fu naturale pensare a un risotto ma non volevo usare gli asparagi riproducendo l’idea dell’arancina che, tra l’altro, non avrei potuto ricreare in tutte le stagioni. Volevo un piatto “sempreverde”.
Casualmente una mattina dal casaro di fiducia acquistai una robiola di Roccaverano, un formaggio di latte di capra dal sapore pungente e dalla spiccata acidità. A casa avevo della nduja aperta, spalmai entrambi su un crostino di pane caldo per ammansire un attimo l’appetito mentre preparavo il pranzo.
Fuochi d’artificio. Ecco cosa mi serviva per il risotto. Un formaggio che contrastasse la grassezza della nduja grazie all’acidità e ne mitigasse il piccante.
Feci un paio di prove, dovevo stabilire quanto fosse percepibile la nduja, quindi dovevo capire in che punto della preparazione del risotto inserirla, a metà perdendone parte della potenza o verso la fine, magari riducendone la quantità?
Ci sono arrivato con altri tentativi ma solo dopo aver arricchito con un ulteriore tassello l’intero piatto. So che per i puristi “sporcare” la robiola è una bestemmia ma per avere un sapore globale ancora più complesso mi mancava una lieve frequenza amara. Provai ad aggiungere dello zafferano in polvere alla robiola, amalgamandola e montandola a mo’ di mousse con il minipimer.
Fico, avevo trovato la quadra perfetta per un risotto che avesse una spiccata grassezza (con nduja e mantecatura col burro, nonché la seppia) che andasse a braccetto con un particolare gioco di acido, sapido e amaro conferito dalla mousse.
A tutt’oggi, quando lo cucino e lo assaggio, ha sempre un sapore “nuovo” che non ho finora provato in nessun ristorante.
Quindi mi pare d’uopo raccontarvi il procedimento del mio Risotto al nero con seppia, nduja di Spilinga e mousse di Robiola di Roccaverano allo zafferano.
Parto, come di consueto, con i protagonisti della commediola, ovvero gli ingredienti per 4 fauci vogliose d’amore.
- 320 g di riso Carnaroli o Vialone Nano
- 2 seppie fresche
- Le 2 vesciche di inchiostro delle seppie, ma se proprio non riuscite, esiste il nero in busta
- 160 g di nduja di Spilinga bella bruciaculo
- 100 g di Robiola di Roccaverano
- Una bustina di zafferano in polvere
- 2 litri di brodo vegetale (o di pesce purché non sia ultra concentrato e invadente)
- Burro
- Sale
La faccenda inizia con la preparazione del brodo, se l’avete già pronto e congelato meglio, altrimenti solito procedimento: sedano, carota, cipolla, coste, foglia di alloro, tutto sbucciato e tagliato a fette – eccetto l’alloro – poggiato sul fondo della pentola e coperto d’acqua, portato a ebollizione, 40 minuti di sobbollitura a fiamma bassa, aggiustare di sale, filtrare con un panno per togliere verdure e impurità e amici come prima.
Sbrigata questa pratica, si passa all’altra un po’ più schifidus, ovvero la pulizia della seppia che potreste però delegare al vostro pescivendolo intimandogli, previa minaccia di buttargli giù il negozio, di mettervi da parte la vescica dell’inchiostro. Vi sconsiglio vivamente di acquistare le seppioline sbianchite e già pulite che trovate spesso in giro, sono piene di solfiti e conservanti. Lasciatele stare.
Da qui passo alla narrazione in prima persona. Se è molto grande, divido in due la sacca della seppia (o anche in quattro, dipende da quanto grandi voglio che siano i pezzetti di seppia nel risotto) e taglio a listarelle. Metto da parte. Fischietto una canzone a piacimento.
Sciolgo il burro nel tegame di rame stagnato che ho designato da tempi immemori per la preparazione dei risotti a casa, tosto il riso, inizio a bagnare col brodo. Proseguo la cottura del riso.
Ah, cazzo, cosa importante. La mousse. Come si fa? Anche prima di preparare il brodo, eh, sciolgo una bustina di zafferano in una tazzina d’acqua fredda, verso dentro il bicchiere del mini pimer in cui già sta la robiola che ho lavorato con la forchetta, aziono il frullatore e frlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrl, frullo come un piccolo Cerbero finché la robiola da bianca diventa gialla-Simpson e ha la consistenza di una cazzo di mousse. Non troppa acqua per lo zafferano, mi raccomando, altrimenti mi s’annacqua tutto e, come di consueto, mi parte qualche valvola. Metto in frigo in una ciotola foderata con un piccolo pezzo di pellicola per circa un’ora ma anche due.
Ritorno al risotto. Quindi, se il tempo di cottura sulla scatola dice 18 minuti state certi che se fate quattro o più porzioni dovrete prolungare un pochino, quindi fidatevi poco dei tempi indicati, il vostro orologio sarà l’Assaggio. Assaggio e, secondo me, mancheranno circa 10 minuti ergo scaravento le seppie tagliate così che cuociano ma senza diventare chewing gum. Voi penserete che 10 minuti siano eccessivi ma solo perché fate inconsciamente riferimento alla seppia arrostita che se la tieni 10 minuti su una piastra che fa 250 gradi è ovvio che dopo 10 minuti mangi un pezzo di merda nel vero senso dell’espressione pezzo di merda. Il risotto, sì e no, viaggia sui 90-100 gradi, quindi 10 minuti me li posso permettere alla grande. Al termine so già che la seppia sarà cotta e tonica senza infliggermi crampi ai muscoli della mandibola.
Assaggio ancora e sistemo di sale.
Mi concedo un ultimissimo mezzo mestolo di brodo, che dev’essere sempre caldo e a 5 minuti dalla fine della cottura giunge il turno della nduja. Tagliata a tocchetti e che, tenuta fuori da frigo, è un pp’ traslucida perché il grasso del puerco un po’ inizia a sciogliersi. Se leggendo e immaginando sentite un lieve fremito proibito vuol dire che siete persone normali.
Amalgamo per bene finché a un minuto esatto dallo spegnimento della fiamma coloro di nero il risotto aggiungendo le vesciche con l’inchiostro che tanto si disintegrano col calore, non morite se le mangiate.
Minchia, c’è un profondo nero in pentola, sistemo di sale, spengo la fiamma, manteco con la giusta dose di burro. La giusta dose la stabilisco io, non il dietologo.
Oh, schiaffo il risotto sul piatto da portata, nella diatriba tra piatto piano o piatto fondo vi lascio scannare come dei cani randagi, così come per l’altra faccenda arancino vs arancina, guardate che di queste cose non me ne fotte un cazzo. Però, ok dai, lo dico, meglio piatto piano così lo posso schiaffeggiare da sotto come la chiappa soda di una fringuella monella ma assolutamente consenziente che, anzi, s’arrabbia se non lo faccio.
Il riso si allarga sulla superficie del piatto col suo nero lucente con qualche puntina di rosso peperoncino che s’affaccia sotto la coltre di burro e amido che lo rende uniforme e armonico.
Ora, su come apporre la mousse di robiola allo zafferano ho fatto diverse prove, a volte a pois con un biberon, a volte a spirale ma mi pare di averla già vista un miliardo di volte su Instagram, al che ho puntato sulla versione più banale ma, nel contempo, più funzionale: la quenelle al centro. Tu inizi dai bordi, ti avvicini a ogni forchettata e alla fine ti becchi st’apoteosi di mousse ribalta letteralmente il piatto.
Guarda che sembro un coglione ma le cose non le faccio mica a cazzo.
Stay tuna
- Il Disconsiglio: piatto visivamente scuro, disco umbratile che altrimenti il contrasto eccessivo rischia di soverchiare tutti gli sforzi tendenti alle tenebre. Il risotto si gusta a luci basse mentre nella stanza risuona, in sottofondo, Bones of Man di Equador, annata 2016