Tunasophy è la rubrica in cui disserto a briglia sciolta di Cibo e ciò che gravita intorno. Sono riflessioni più o meno lunghe, più o meno serie, più o meno acute.
***
Chef’s Table di Netflix è una serie affascinante, qualunque appassionato di cucina non può che confermarlo. Ha tutti gli elementi tecnici che la rendono raffinata e fuori dall’ordinario: una fotografia nitida e dettagliata, close-up che ammiccano all’iconografia dell’arte fiamminga, un’eleganza neo-classica che traspare sin dall’attenta scelta musicale (la sigla di apertura è L’Inverno di Vivaldi riarrangiato da Max Richter). E soprattutto storie di successo.
Ho visto per intero le prime tre delle cinque stagioni fin qui trasmesse, delle ultime due solo qualche episodio. Per chi non sa di cosa stia parlando, ogni puntata di Chef’s Table è la monografia di uno chef, non solo stellato. In un modo o in un altro ognuno ha contribuito a sviluppare un discorso gastronomico nel proprio territorio o nel mondo. Ci sono Bottura con la sua cucina artistico-visionaria e i calembour avanguardistici di Grant Achatz, ci sono i primordiali Magnuss Nilsson e Francis Mallman, la missione etico-ambientalista di Dan Barber e gli esotismi di Jeon Kwang e Gaggan Anand, c’è un intero universo culinario che attraversa anche lievitati, ramen e pasticceria. Tutto.
Ogni episodio ha una struttura ferrea. Parte da spaccati di vita lavorativa, esplora il passato dello chef fino giungere all’inevitabile momento di difficoltà, che sia una profonda crisi creativa, un lutto o una grave malattia, prima dello scioglimento finale. Un vicolo cieco da cui il nostro eroe non può non uscire. Propp si leccherebbe i baffi nel rintracciare gli aspetti canonici della fiaba.
Sì, perché Chef’s Table è una fiaba su schermo che sentenzia l’abisso che divide noi da loro.
La fotografia disinfettata da sala operatoria è, a mio avviso, l’elemento tecnico che gioca più a favore dell’eroicizzazione. Lo chef è come un chirurgo che salva vite umane con la sua giacca nivea e le pinze che sono l’estensione del corpo e con cui media il suo rapporto con gli alimenti, adagiando delicatamente micro-porzioni e fiori edibili nel piatto, magari in puntuali slow-motion che ne aumentano il gesto ultraterreno.
Ma cosa rende realmente altisonante la nomea di uno chef? Direte, i riconoscimenti e le stelle. No, quelle sono una diretta conseguenza. Uno chef è un titano grazie solo ai suoi piatti (e al marketing e allo storytelling che ci ricama attorno). Grazie al Cibo, a come lo interpreta, lo affronta e lo trasmuta. E in Chef’s Table, come d’incanto, il Cibo sparisce. Puff.
Da cuoco vorrei scrutare i procedimenti, sfogare il mio voyeurismo anche solo per capire come si fanno certe cose, senza la pretesa di poterle riprodurre. O scoprire quali riflessioni ha affrontato lo chef per unire quei due ingredienti, qual è la genesi di quel piatto che lo ha consacrato.
Niente. I piatti che dovrebbero narrarci una storia umana ancor prima che gastronomica scivolano come scialbi titoli di coda, solitamente per dissolvere la tensione del Momento di Difficoltà, l’unico frangente in cui scorgiamo un briciolo di umanità, i nostri neuroni-specchio ci fanno a credere per un istante che noi siamo come loro, vediamo un taglio vivo da cui zampilla sangue, caldo e rosso come il nostro. Lo chef è un essere umano con gli occhi lucidi e la voce incerta ma è solo la rincorsa verso la mitizzazione. Lo chef risorge come un’araba fenice, il superamento è l’ascesa verso l’Olimpo, sospinta da un ritmo incalzante – qui la colonna sonora lambisce l’action movie senza rinunciare alla grazia della classica contemporanea – e dai piatti che si susseguono nei fotogrammi con il nome in sovraimpressione ma che non raccontanp niente, proprio nulla sul Nostro Mito.
Direte che è giusto così, Chef’s Table è il ritratto del personaggio, non un ricettario. Ragione. Ma raccontare i piatti, la loro concezione, le tecniche, quanto meno accennarle, significa raccontare l’uomo, tradurlo in un linguaggio gastronomico peculiare. Cibo e chef sono legati a doppia mandata, l’uno non può esistere senza l’altro e viceversa.
Il Cibo quindi diventa un oggetto distante da chi osserva, proprio come teorizzava Roland Barthes in “Cucina ornamentale”. Il distacco s’avverte a partire dalla sua estetica perfetta, lontana mille miglia dalle imperfezioni dei nostri piatti casalinghi rudimentali. Ma la sparizione del Cibo rientra alla perfezione nella mitologia dei social, Instagram su tutti. Il Cibo è lì, appare nella vetrina dello schermo ma non possiamo toccarlo, a volte non ci è dato sapere nemmeno cosa sia con precisione, chi lo posta non si premura nemmeno di scrivere due righe di spiegazione.
Chef’s Table è così. Mostra ma non svela, agiografico e narcisista, imprigionato in un labirinto di primi piani raffinatissimi in cui vince il dettaglio misterioso, cosa sarà mai quella densa crema rossa che cola con un movimento fluido eppure composto accanto a quel filetto di carne scura che non ci giurerei sia manzo, magari è un cervo, chi lo sa?
Ed è proprio quando il Cibo sparisce che viene fuori l’essenza della figura dello chef contemporaneo: una statua greca che si specchia nel nostro stupore e nei nostri Bravissimo! alla dannata ricerca di un riconoscimento che ne affermi lo status, che ne definisca la personalità. Che gli dia un posto nel mondo, il più in alto possibile.
***
UOVO MORBIDO, CREMA DI BROCCOLO, LIQUIRIZIA, PANE E BURRO
Cuocere l’uovo con tutto il guscio per un’ora a 62.5°C. Se hai un roner è perfetto altrimenti aiutati con un termometro a sonda.
Soffriggere mezza cipolla bianca tritata in olio extravergine d’oliva, rosolare i broccoli – sia le cime che il tronco e le foglie –, aggiungere una presa di sale, proseguire la cottura con due mestoli di acqua calda o con brodo vegetale (consigliato). Quando i broccoli si saranno disfatti, mantenendo un po’ di liquido di cottura, frullare, poi setacciare con uno chinoise, rimettere sul fuoco e ridurre fino a ottenere una crema densa. Aggiustare di sale.
In un padellino sciogliere il burro e soffriggere dei cubetti di pane raffermo fino a formare una crosticina in superficie.
Una volta cotto l’uovo, sbucciarlo delicatamente, versarlo in un piattino e liberarlo dagli avanzi di albume che non si è rappreso.
Mettere due cucchiai di crema di broccolo sul fondo di un piatto, spargere della polvere di liquirizia, adagiare sopra l’uovo con una macinata di sale affumicato e qualche cubetto di pane croccante. Spacca il tuorlo e godi forte.
Stay tuna
[Photo credits | quella di Chef’s Table viene da qui, qui e qui. Quelle dell’ovetto sono mie]