Oh Milano, Milano, mini-metropoli quasi-cosmopolita dove puoi assaggiare roba da tutto il mondo senza prendere un aereo. Come ogni grande città permeabile a mode e culture differenti, accoglie ristoranti che propongono cucine dalle più diverse, sia regionali che nazionali, Patrimonio dell’Obeso per un vorace come me.
Negli ultimi tempi sto approfondendo i miei studi sulle cucine extra-italiane. Perché a me l’idea che si mangi bene solo nell’italica penisola (e isole annesse) non va giù.
Ammetto che nella terra dei Dostoevskij e dei Cechov, dei Gogol’ (ucraino) e Majakosvkij (georgiano) non c’ho mai messo piede ma, complice anche l’approdo nella mia libreria di un ricettario russo (in inglese) che m’è stato donato, m’è venuto il guizzo e mi sono messo sulle tracce di alcuni ristoranti di cucina sovietica a Milano. E qualcosa ho trovato.
Prima di narrarvi però cos’è accaduto seduto al tavolo dei tre locali in cui ho poggiato le mie tonniche chiappette, è bene dire che la cucina russa risente innegabilmente della cappa apposta dal regime comunista. Essendo stato quello dell’ex Unione Sovietica un territorio gigantesco che si estendeva dal Circolo Polare Artico alla fascia Subtropicale, il tentativo di standardizzare ricette e procedimenti da parte del governo s’è rivelato, nel lungo periodo, fallimentare. Inoltre, il controllo statale penetrava in tutti gli aspetti della quotidianità dei cittadini e le abitudini alimentari non ne erano esenti. Negli anni Ottanta i catering pubblici erano ancora fermi ai piatti di quarant’anni prima, complice la chiusura verso l’esterno che non ha permesso, alla cultura gastronomica sovietica, di includere nuovi ingredienti e di accogliere le contemporanee tecnologie nonché le nuove tendenze che si sviluppavano e propagavano in Europa, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta con l’avvento della Nouvelle Cuisine francese.
Soltanto negli ultimi anni è sorto un piccolo movimento che punta a modernizzare la cucina russa attorno a Vladimir Mukhin, chef stellato del White Rabbit di Mosca (in cui vi sarete probabilmente imbattuti guardando la terza stagione di Chef’s Table su Netflix). Il percorso che conduce all’allontanamento dello stereotipo di zuppe stracotte e fiumi di vodka che accompagnano blinis al caviale è comunque lungo e ostico. Di certo non pensiamo alla Russia come all’epicentro della cucina gurmé.
Vabbè, quindi, dov’è che sono stato? Cosa ho mangiato? Vale la pena investire una sera e qualche decina di euro per assaggiare piatti a falce e martello? Ve lo dico man mano
(prima che me ne dimentichi, esiste un alimentari di robe russe a Milano, si chiama Kalinka, in via Boscovich 40 e un’amica russa mi ha parlato di un altro ristorantino ma che è una specie di luogo segreto in zona viale Monza, adesso non ricordo: indagherò).
***
PODKOVA
Via della Chiesa Rossa 25, Milano – www.podkova.it
Il nome, tradotto, vuol dire “ferro di cavallo”, che è un simbolo portafortuna. Arrivarci non è agevolissimo per chi vive all’altro capo della città, dista quindici minuti a piedi dalla fermata Famagosta della M2 e il locale si affaccia sul Naviglio Pavese, ma in fondo.
L’ambiente è tutto fuorché leggiadro: carta da parati rossa con decorazioni un po’ kitsch, ci sono due sale, una a pianterreno e una sotto per 60 posti complessivi.
Anche il menu non contribuisce ad alleggerire la sensazione, possente rilegatura in pelle (finta?) con ricami in bassorilievo. Sfogliandolo mi pare di tornare indietro nel tempo quando, da bambino, sbirciavo i ricettari di mia madre: filetto alla Strogonoff che non vedevo da non so quanti anni ma anche con cognac e pepe, allo sherry, alla Bismarck.
Il benvenuto è in stile russo. Approda in tavola un minuscolo calice di vodka che accompagna dei crostini con aringa affumicata e riccioli di burro. Bevo tutto d’un colpo e degusto il crostino, sapido e grasso.
I tempi d’attesa delle portate non sono poi così lunghi sebbene il locale sia semivuoto, stasera. C’è solo una famiglia italiana che occupa un tavolo da sei.
Con una birra Baltika da 9° m’involo verso un blinis – ovvero una crepes – con caviale rosso, su cui cospargo della panna acida. Ecco, la panna acida si mette Ovunque. Poi un crostino, stavolta con caviale nero, che costicchia un bel po’ (15 euro). Niente da contestare, sapori netti col caviale che svetta grazie alla sua nota salata.
Mentre i miei amici prendono dei pelmeni – ravioli a forma circolare – al salmone, invero molto saporiti e ben cotti, e uno shashlyk, spiedino di carne con marinatura tipica georgiana – che immaginavamo microscopico e invece approda una sorta di avambraccio gigantesco – io mi faccio un borsch, la tipica zuppa sovietica a base di barbabietola. Tende al dolciastro e all’acidulo, essendoci verdure dolci e succo di limone, in verità la quantità di carne nel brodo è miserrima. Accompagno anche questa con panna acida di rito.
Non è ancora finita perché nel mio pancino a scomparti c’è spazio per un così vintage eppure fascinoso filetto alla Strogonoff, che è della carne sfilacciata saltata in padella con una quantità inusitata di panna e accomodata in una cialda che è una via di mezzo tra una crosta di pane e un cracker. Non male, devo ammetterlo, anche se alla lunga la troppa panna mi ha disgustato. Consiglio però di provare lo spiedino di storione, molto delicato e ben cotto.
Servizio molto gentile e discreto, in sala servono due donne 100% Russia. Ah, in diffusione costantemente musica pop russa, che non sto qui a dirvi cos’è.
Con due birre, 55 € a persona.
***
VERANDA
Via Bezzecca 6, Milano – www.facebook.com/veranda.bezzecca6/
Sala minuscola ma tutto fuorché opprimente e proprietaria davvero pittoresca. Con questi due elementi Veranda potrebbe vincere la lotta a tre con gli altri due locali di questo speciale Guida Minchiolìn.
Ecco, mi soffermo un attimo sulla proprietaria, di cui, ahimé, ho dimenticato il nome. Una sorta di matrona abbastanza eccentrica, perfettamente truccata, capelli che paiono freschi di parrucchiere, ingioiellata e che si siede al tavolo per prendere l’ordinazione trattandoti come un cliente che frequenta il locale da vent’anni. Tiene YouTube sempre aperto con i video di cantanti pop russi che passano in rassegna – anche qui, lasciate ogni speranza – e improvvisa balletti nei momenti morti del servizio.
E la cucina com’è? Di livello leggermente superiore rispetto a Podkova e anche più economica, media prezzo dei piatti da 8 a 14 euro.
Prendo un blinis con caviale rosso anche qui, come da copione con panna acida e anche qui è un piatto davvero molto semplice nell’esecuzione e nel sapore che c’è poco da dire.
Mi stupisce il pasticcio di aringa, shuba in lingua madre. Presentazione un po’ d’antàn ma il costante agrodolce che nasce dall’interazione di barbabietola, carote e maionese mi seduce.
E se vi dicessi che i golubzi, degli involtini di cavolo ripieni di carne e riso, mi hanno ricordato le polpette in umido di mia nonna, che tutto era fuorché russa, dovreste credermi perché un rivolo d’emozione mi ha colto di sorpresa. Un sapore riconoscibilissimo e che non percepivo da anni. Un momento di puro comfort food.
Anche qui sulla carta c’è lo shashlyk, lo spiedino con marinatura di spezie – qui specificato per 12 ore – e stavolta non mi sfugge: delicatissimo e morbido, carne succulenta e sorretta dagli aromi che la avvolgono in un aromatico abbraccio.
Be’, devo dire che c’è del pettinaggio, cibo semplice ma eseguito a regola d’arte e con quel pizzico di folklore mai eccessivo.
Anche il conto non è eccessivo, con birra, 31 € a persona.
***
UZBEK
Via Farini 38, Milano – www.ristorante-uzbek.com
La cucina uzbeka è un oggetto misterioso ai più. In primis, l’Uzbekistan dove sta? In Asia Centrale, non ha sbocchi al mare e confina con Kirghizistan, Kazakistan, Tagikistan, Afghanistan e Turkmenistan.
I piatti uzbeki sono il risultato di un continuo crocevia culturale e alcune influenze possono apparire campate in aria. In primis, vabbè, la Russia ma anche Medioriente – per via di un massiccio uso di spezie -, India e, paradosso dei paradossi, Corea del Nord.
Proprio quest’ultima ha destato il mio interesse così sono andato a caccia di notizie. C’è una folta colonia nordcoreana in Uzbekistan originata dalle deportazioni staliniane iniziate nel 1937 in seguito all’invasione del Giappone in Manciuria, una regione a sud-est dell’Impero Sovietico che confina con la Cina. Lì era di stanza una comunità coreana stabilitasi nei primi anni del Novecento fuggita dalla repressione giapponese a ridosso dell’annessione della Corea. I russi accusarono i coreani di essere spie al soldo del Giappone e nel 1937 iniziò la deportazione che condusse quasi 150.000 nordcoreani in Uzbekistan. Inevitabilmente i nuovi arrivati portarono con sé le proprie tradizioni e conoscenze gastronomiche, tant’è che il ramen e i manty, ovvero ravioli cinesi, si possono mangiare senza troppi problemi nella repubblica uzbeka.
Visto tutto questo interessante e inaspettato retroterra culturale, mi sono fiondato da Uzbek in via Farini 38 (prima si chiamava Liberty 38). La proprietaria è di origini coreane mentre il ragazzo che si occupa della sala è italo-giapponese. Insomma, non si cazzeggia qui in quanto a fusion.
La sala è elegante ma non patinata con un blu-dorato costante che crea una bella atmosfera.
Sul menu compaiono diversi piatti tipici russi: solyanka, vareniki, borsch, blinis con caviale. Mi concentro su del cibo 100% uzbeko.
I samsa, fagottini di pasta sfoglia al forno ripieni di carne (quelli tradizionali sono di montone), sono speziati il giusto e vi avverto una delicata nota di noce moscata. In pratica sono i samosa indiani, in virtù di una delle diverse influenze straniere. Buonissimi, leggeri e burrosi senza essere stucchevoli.
Unica concessione alla tradizione russa sono i pelmeni, anch’essi ripieni di carne. Li ordino perché i ravioli georgiani – che hanno una forma con beccuccio che si impugna per portarli alla bocca senza posate – li fanno solo su ordinazione. Nella loro semplicità sono ottimi, la pasta morbida accompagna il ripieno, succulento e aggraziato.
Faccio un giro di plov, ovvero del riso pilaf saltato con carne, ceci, carote e qui arricchito con del melograno che dà una spinta agrodolce al piatto, in cui si sente il cumino.
I dolci non sono per niente elaborati. La torta di panna acida di derivazione russa, onestamente, non è nulla di che, anche il chak chak, un dolce tipico tartaro composto da delle sorta di vermicelli di una pasta che ricorda – molto lontanamente – quella degli struffoli e tenuti saldi con del miele, non mi manda fuori di testa sebbene sia piacevolmente croccante.
Tutto invero leggerissimo e di facile digestione, con un conto che, con una bottiglia di vino rosso, arriva a 35 € a persona.
Stay tuna