Barletta
Martedì 8 agosto
Nel tragitto che affrontiamo tra Cerignola e Margherita di Savoia – passando per Trinitapoli e costeggiando le saline – non c’è nessun’auto che singhiozza, nessuno stop improvviso per strada. Pietro mi accompagna alla fermata del bus e lo ringrazio di cuore per questo strappo.
Prima di partire, l’autista del bus trotterella parlando al telefono. Gli chiedo se questo passa da Barletta e annuisce senza proferire parola da oltre gli occhiali scuri. Cerco di aprire il portabagagli per ficcarci il trolley ma con un No lento del capo come a dire Che Cazzo Fai mi indica col dito la porta del bus. Vuol dire: Portalo Su. Tutto senza emettere alcun suono.
L’autista, però, è una carogna perché sta quasi per farmi balzare la fermata di Barletta, che gli chiedo esplicitamente di indicarmi una volta arrivati. Scendo in extremis e poco dopo, fradicio di sudore per via di questo caldo bastardo, arriva Isabella in auto.
Convive col suo ragazzo, Domenico, che conoscerò tra poco. Fa la nutrizionista e per darmi il benvenuto mi porta in un panificio per assaggiare un pezzo di focaccia barese. Che altro non è che una pizzetta bassa con pomodorini e olive. Ce n’è anche una versione più alta, sempre con gli stessi condimenti. Io apprezzo la morbidezza della base e la leggere croccantezza dei bordi.
Tra un giro della città, costeggiando il lungomare su cui campeggia una lunga fila di palme, e un breve passaggio di fronte al Castello Normanno Svevo di Barletta, che sta dirimpetto alla Cattedrale di Santa Maria Maggiore, si fa l’ora di pranzo e si va dai genitori di Domenico. Oggi è il suo onomastico.
La madre di Domenico ha preparato un pranzo semplice ma che fa breccia. Domenico viaggia spesso per lavoro essendo un rappresentante di scarpe e a Gragnano ha fatto scorta di pasta. Il sugo di pomodorini è dolce e nel contempo confortante e sebbene fossi già sazio dopo aver fatto incetta di tarallini, non lascio neanche una briciola della gratinatura delle seppioline che mi si parano subito dopo davanti la barba, delicate alla masticazione e con una lieve puntina acidula data da una sfumatura al vino.
Domenico deve tornare a lavoro, così io e Isabella andiamo un attimo a casa non prima d’aver fatto un salto al supermercato. Mi guardo intorno mentre attraversiamo la zona periferica: pare che gli architetti barlettani abbiano sviluppato un perverso leitmotiv stilistico inserendo particolari dai colori sgargianti in palazzi dall’architettura. Inoltre, alla guida i barlettani sembrano tutto fuorché pavidi, non sono rare le frenate all’ultimo istante agli incroci.
Infilo il costumino e si va in spiaggia dove ci attendono alcuni amici di Isabella: Francesca al settimo mese di gravidanza con suo marito Pasquale, poi Angela e Rossana che saranno tutti presenti alla cena di domani. Mi viene vivamente sconsigliato di fare il bagno, puoi guardarlo da lontano, il mare, dovendomi così attenere al divieto di balneazione passo le due ore parlando con Pasquale che mi fa un sunto della Disfida di Barletta – in cui 13 italiani sotto l’ala protettiva di Consalvo da Cordova affrontarono e sconfissero 13 francesi di stanza a Canosa di Puglia dopo essere stati accusati da Guy de la Motte d’essere dei vigliacchi. Lo scontro avvenne il 13 febbraio 1503 – e Francesca mi fa l’analisi della scrittura, dato che è una calligrafa (in buona sostanza sono una persona abbastanza complicata). Pasquale è un appassionato di storia e rincara la dose accennandomi a un gruppo di pensionati che con un solo cannone tennero testa a una pattuglia di soldati tedeschi in ritirata verso la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Alla fine il sole tramonta e il buio, si sa, fa venire fame. Isabella e Domenico mi portano a fare un giro tra i vicoli del centro in cui c’è una discreta folla passeggiante che pare assorbire tutti gli eventuali spifferi d’aria, quasi non respira. La cattedrale unisce stile romanico ed elementi gotici, la vedo solo dall’esterno e alle sue spalle sbuca il castello federiciano dall’ampio fossato verdeggiante.
Dicevo della fame. Acciuffiamo l’auto e si tenta di esaudire qualche mio desiderata culinario: torcinelli e salsiccia di cavallo.
La destinazione si chiama L’Officina del Pollo. Posto veramente hardcore, i tavoli sono all’esterno sotto un tendone che fa effetto-serra, attorno ai tavoli di plastica verdi stanno assiepati branchi di famiglie e amici. Quasi nessuno sta mangiando. Si ordina dentro, oltre il bancone c’è un tizio che suda alacremente davanti le vampe della griglia e grugnisce contro i colleghi, che lo incalzano a far uscire la roba.
Non è rimasto molto, dice il ragazzo che prende l’ordinazione. Facci un misto, gli diciamo. Ci accomodiamo, la tovaglia è di quelle usa e getta di carta con quadri gialli e rossi. I camerieri sono trafelati e vanno e vengono ma spesso senza nulla in mano. Si giustificano di qua e di là e poi capiamo: la griglia è in palla e molti clienti attendono da un paio d’ore un piatto di carne mista.
Qualcuno accenna ad alzarsi e andare via ma viene prontamente fermato dai piatti che, con un tempismo encomiabile, approdano sulla tavola. A noi va di culo essendo gli ultimi, una volta sbloccata la situazione è tutto in discesa.
Arriva il nostro misto: i torcinelli sono il pezzo forte, ovvero interiora avvolte nella pancia di agnello – parte molto grassa che si scioglie durante la cottura e lubrifica l’interno e l’esterno – a sua volta abbracciati da budello. Sono come la stigliola siciliana, quanto meno quella che si fa a Caltanissetta, ma ancora più truce e arrogante, tra l’altro croccante fuori. Tra i vari pezzi di carne c’è uno spiedo di sola carne di cavallo e intercetto la salsiccia, scura di colore per via del naturale pantone rossastro della carne equina, molto sanguigna e ferrosa ma dal sapore piuttosto delicato nonostante tutto. Il resto è una normale grigliata su piatti di plastica. A dispetto dell’ingente sapidità, durante la notte la digestione fila liscia come l’olio.
Mercoledì 9 agosto
Isabella e Domenico mi hanno spiegato per sommi capi dove trovare il mercato per fare la spesa. Stasera preparerò la cena per loro e gli altri 7 invitati.
Tra sudori e Instagram Stories varie arrivo incolume al mercato di piazza Di Vittorio che si tiene tutti i giorni.
Essendo alle porte di ferragosto i clienti non sono molti e sulle bancarelle la merce è quella che è, tonnellate di pomodori e melanzane e peperoni ma poche chicche.
Per creare i miei piatti parto comunque dalla materia prima protagonista, il pesce. Il pescivendolo a cui affido le sorti di questa cena ci tiene a mostrarmi avvicinandomi teatralmente ogni esemplare al muso il rosso vivo delle branchie dei branzini che eviscera, la tenacità delle seppie e la grandezza delle sacche dell’inchiostro, che chiedo esplicitamente di tenermi da parte. Lui e la moglie mi domandano cosa ci faccia qui, spiego il motivo per cui sono qui e altri clienti attorno si inseriscono nel discorso: Oh Che Bello, uno mi dice pure che ha vissuto 15 anni a Milano ma che poi ha perso il lavoro ed è rientrato alla base.
Dopo sta bella chiacchierata, alla fine prendo il pesce, finisco la spesa e mi ferma Francesco, che non conosco ma che ha seguito le mie Stories: Sei l’uomo senza tonno? Mi domanda. Rispondo affermativamente. Facciamo un video per Silvia, una tua fan. Esaudisco ogni desiderio dei miei Follouà.
Di contro, però, domando a Francesco dove posso mangiare un riso, patate e cozze al volo. Da Demarzo, dice. Così vado a mollare la spesa e vado da Demarzo a farmi fare una vaschetta.
Essendo il primo che mangio in assoluto non posso dire se fosse eseguito bene, di certo c’è che il riso è ampiamente scotto. A quanto pare a Barletta si fa con aggiunta di zucchine.
Penso comunque che si possa fare di meglio. Il pranzo con Isabella e Domenico è semplice, mozzarelle e burratine buonissime, così come la burrata affumicata, che sembra una scamorza più leggera.
Sono le 16 e sono in ritardo, devo iniziare a macinare se voglio far mangiare i commensali. Tra sfilettamenti e desquamate, creme varie e sudori assortiti assemblo i tre piatti della cena.
Tutti apprezzano, perfino il risotto che temevo fosse il piatto meno consistente dell’intero menu. Sono salvo, anche stavolta.
Menu della cena
Seppie sporcate d’inchiostro, ristretto di pomodoro, purea di sedano
Risotto alla barbabietola con orata, capperi e polpa di limone di Sorrento
Branzino marinato con succo d’arancia e zenzero in crosta di frisella di Altamura e nocciole, crema di lattuga, cipolla rossa caramellata
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POLIGNANO A MARE – MASSAFRA
Giovedì 10 agosto
A stomaco vuoto e senza neanche il misero sostengo neuronale di un caffè, facendo un cambio a Bari e con l’ascella pezzata ma non maleodorante, approdo a Polignano a Mare in treno. Dopo due minuti di attesa fuori dalla piccola stazione, alzo lo sguardo e a fissarmi, sotto la frangetta scura perfettamente in linea, ci sono gli occhioni di Francesca. Sarò suo ospite qui e a Massafra, oggi e domani.
Vive ormai da diversi anni a Firenze, Francesca, che realizza gioielli ma è impegnata anche in performance artistiche. Questo è il secondo anno in cui trascorre l’estate a Polignano in una piccola casetta con uno dei bagni più microscopici in cui sia mai entrato. Sono esperienze anche queste.
Un caffè al volo in uno dei bar più rinomati del paese, il Super Mago del Gelato dall’insegna rosa shocking per niente discreta. Il locale è famoso per aver “inventato” il Caffè Speciale, di cui chiedo gli ingredienti al banconista e sono tanti e non riesco a memorizzarli. Per me un espresso normale senza zucchero, grazie.
Polignano è presa d’assalto dai turisti. Un autentico carnaio, folle formicolanti per le viuzze del centro storico, i cui edifici sono costruiti nella consueta pietra bianca che restituisce una luce abbagliante. La spiaggetta principale, una delle tante insenature e calette della zona, è assediata da bagnanti, alcuni si lanciano dalle rocce che fungono da trampolini accompagnando i tonfi in acqua da urla stridule. Io non sono un temerario dei tuffi e preferisco un’immersione graduale.
L’intera mattinata trascorre a mollo tra una chiacchiera e un’altra, discorrendo dei reciproci progetti futuri. All’ora di pranzo, però richiedo ciò che la stessa Francesca mi aveva accennato appena arrivato: il panino col polpo.
Per raggiungere la meta dobbiamo soltanto salire qualche scalino e attraversare una piccola piana e siamo al Lido Cala Paura – che non si riferisce allo stato emotivo ma ai paguri – in cui, in un ampio capannone, c’è un braciere su cui un tizio corpulento con gli occhiali schiaffa polpi sulla griglia come se stesse lanciando fazzoletti nell’immondizia.
Mentre siamo impegnati a far la fila arrivano a sorpresa Azzurra e il suo compagno Massimiliano, vivono a Milano, li ho conosciuti a un evento qualche mese fa e sono in vacanza in zona. Facciamo il pranzo tutti assieme che mi sembra la cosa migliore.
Atterra, tra le mie grinfie, il tanto desiderato panino: solo pane, polpo – è uno di quelli di piccola pezzatura, intero peserò 300 grammi – olio, sale, limone, prezzemolo. Basta. Niente salsine, niente cagate gurmé di stocazzo. E il palato non ha molto da annotare se non che il cefalopode è morbido ma senza sfilacciarsi, mantenendo la carnosità tipica di una cottura a puntino.
Bravi tutti, io però devo farmi una pennica anche perché sono stato sotto il sole senza protezione e la temperatura corporea sta salendo inesorabilmente. Sulla via del ritorno c’è Domenico Modugno sotto forma di statua che ci spalanca le braccia. Il cantante era nativo di Polignano.
Al mio risveglio Francesca sta lavorando in un piccolo showroom in una piazzetta, la raggiungo solo dopo essermi perso circa 3 volte non ricordando esattamente la strada – ed essere passato davanti alla chilometrica fila a L davanti Pescaria – e quando smonta c’è un tavolo da due che ci attende al ristorante Casa Mia che si affaccia in una delle piazzette principali del paese.
Dalla teca coi pesci freschi in esposizione, vedo annaspare un astice ormai morente – che in teoria dovrebbe stare in un acquario e non sul ghiaccio, lo dice la legge – così chiedo direttamente al proprietario, che conosce Francesca e che le porge convenevoli su convenevoli (così come una promessa di trattamento speciale sul conto), di farlo fuori, facciamoci un primo.
Il cameriere che prende l’ordinazione non ci da neanche il tempo di consultare il menu che ci tempesta di proposte. Storditi, decidiamo per un plateau di crudi, una tartare di tonno e poi paccheri con l’astice morente.
Il crudo è molto buono, soprattutto le cozze e le tagliatelle di seppie. Senza infamia e senza lode la tartare di tonno, promossa a tutto spiano dal cameriere. I paccheri molto gustosi, cotti al dente, il sughetto ondeggia tra il dolciastro e l’acidulo, una combo di sapori che gradisco parecchio. L’astice è cotto bene, per niente gommoso.
Al momento del conto, però, lo sconto-amicizia tanto sventolato è di sole 8 € su un totale di 93 pippi. Non si chiedono agevolazioni, ma nemmeno far gli smargiassi, ecco. Pago senza batter ciglio e salutiamo.
Il dopocena è un salto alla Casa Del Mojito, locale preso d’assalto da tanti giovani in vacanza a Polignano. Non sono un fan della specialità della casa ma, essendovene diversi tipi sul menu, tento l’approccio con un Cuba Mojito: buono, sebbene il mio palato non faccia testo (io bevo Negroni e Gin Tonic, sono triste e monotematico).
É notte, le stelle dalla spiaggia non si vedono cadere, l’unica cosa che pare scendere sono le palpebre. Dormire, yes we can.
Venerdì 11 agosto
Mariuccia, la madre di Francesca, ci reclama a Massafra. Così, non troppo alla buon’ora, ci imbarchiamo su un treno che ci porta alla stazione di Taranto, dove viene a prenderci Domenico, il fratello della mia ospite. Fisico atletico e due spalle larghe una volta e mezzo le mie, sembra più grande dei 24 anni che ha.
Nella villetta dall’ampio giardino in cui giungiamo, Mariuccia ci attende per il pranzo. Nella stessa strada, una villa dopo l’altra, vivono le famiglie di una sorella e un fratello di Mariuccia, e la madre. Strada di famiglia, insomma. Il pranzo è senza troppe pretese, un buon branzino al forno e mozzarelle con insalata. La menzione d’onore però va alle ricottine: giuro, che ricordi non ho mai mangiato della ricotta così saporita e soave, leggiadra e lattea al punto giusto senza tracimare nello stucchevole. Il mio palato è letteralmente estasiato, c’ho quasi i brividi.
Non nego che stare già da 10 giorni a zonzo mi stia provando parecchio, ho le batterie a secco, sono talmente stordito dai continui spostamenti che devo farmi un altro riposino pomeridiano, frastornato anche dal caldo incessante.
Quando riemergo s’è deciso che dovrò cucinare un piatto. Uno solo perché la cena è già organizzata e prevede una serie di portate preparate dall’intera famiglia, che si riunirà più tardi.
Risorto dopo un caffè lunghissimo, con Mariuccia e Francesca si va da un pescivendolo a Massafra, schivando un traffico inaspettato. Tra lupini e cozze e vongole che emettono bolle dagli acquari, su un vasto bancone che però ha in serbo i consueti pesci, decido su due piedi di darmi alla caponata di pesce: spada e tonno e vai col liscio.
Attorno al lungo tavolone imbandito, tra bottiglie che svettano come i picchi di montagne e vassoi che passano di mano in mano, per cena la famiglia chiacchiera e ride e alcuni si prendono amabilmente per il culo a vicenda, in una sorta di copione ormai rodato.
Sfilano in rassegna della purea di fave con friggitelli fritti (piatto tipico della zona), riso patate e cozze, cozze ripiene, delle eccellenti polpette a sugo (riesco a mangiarne solo un paio dato che dalle mie parti, la periferia del tavolo, giunge ciò che non è stato razziato), parmigiana di melanzane (una costante è qui passarle in uovo e farina prima di friggerle), mozzarelle e caciocavallo. Assaggio tutto senza tralasciare nulla.
Con le tenebre è sceso anche un inaspettato fresco che mi coglie alla sprovvista, non ho nulla a maniche lunghe con me ma non mi lamento affatto: dopo 10 giorni di puro inferno, adesso respiro.
Menu della cena
Caponata di pesce spada e tonno
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Altamura
Sabato 12 agosto
Gli spostamenti iniziano a farsi un po’ difficoltosi. Per raggiungere Altamura da Taranto c’è un bizzarro cambio a Gioia del Colle: parto in treno ma poi mi tocca arrivare in bus. E trovare il bus non è immediato anche perché non c’è nessuna indicazione. Mentre bestemmio e sudo, non so come, lo vedo lì, che ashpett’ammé. Il bus.
La missione si compie quando, ad Altamura, sotto un cielo improvvisamente ingrigito e un’arietta fresca che a Gioia del Colle non c’era, Maria Teresa e Francesco mi raccattano in auto: tocca a loro offrirmi un giaciglio.
A casa ci attende papà Nicola per un pranzo che, vista l’ora, potrebbe essere una merenda rinforzata (sono quasi le 4 del pomeriggio): focacce in teglia – dal bordo croccante – e non, più alte e spugnose, che sono un godimento a ogni morso. L’ennesima razione di mozzarelle e burratine a cui non posso dire di no per questioni morali (e di gola), nonché un’eccelsa salsiccia a punta di coltello che è una sorta di salame poco stagionato. E non dimentico mica Sua Maestà il Pane di Altamura: al naso si sente immediatamente il lievito madre, con quella piacevole puntina acida, la crosta sontuosa e robusta, l’alveolatura piccola ma fitta. Più che un accompagnamento, potrebbe prendersi il ruolo di protagonista di un pasto.
Essendo sabato e dovendo, all’indomani, metter su una cena di 3 portate, con Maria Teresa e Francesco vado a caccia di ingredienti (e di idee per i piatti da cucinare). Sono entrambi molto cordiali e si nota che sono molto legati l’uno all’altra. Mi piace il loro modo di scherzare e interagire, sebbene all’inizio parevano un po’ imbarazzati dalla mia presenza. Ma uno dei miei compiti è far sentire immediatamente i miei ospiti a proprio agio, un fine lavoro di psicologia che per me è diventato ormai naturale. Dopo poco abbiamo rotto il ghiaccio e mentre raccatto pesci, pasta, ortaggi vari Maria Teresa, che fa la psicologa, mi scruta nei miei monologhi e ragionamenti nel tentativo di capire cosa dovrò spadellare la sera dopo. Penserà che sono matto.
Ma intanto, stasera non dovrò fare un beatissimo cazzo se non masticare e accogliere una discreta quantità di cibo in pancia. A cena sono invitati alcuni amici tra cui Vincenzo che ha preparato un piatto molto particolare che attira tutta la mia attenzione psichica e gastrica: la pecora alla r’zzaul: la pecora vecchia che non può più fornire né latte né agnelli, viene macellata e tagliata a pezzi. In una rizzaula, ovvero una giara di coccio dal collo lungo, si mette lo spezzatino di pecora con verdure dolci che mitigano il sapore amaro delle erbe selvatiche, di cui le Murge, zona in cui mi trovo, è generosa e un mazzetto di finocchietto selvatico. La tradizione vuole che il “tappo” sia fatto di pasta di pane ma Vincenzo utilizza un foglio di alluminio legato con del fil di ferro. Si cuoce in forno a legna per 3-4 ore, una tecnica antica, quasi primordiale.
La carne della pecora, da molto dura, diventa morbida come quella di uno spezzatino di manzo – grazie anche a una precedente marinatura e allo start di cottura con un po’ d’acqua. A cuocerla sono tutti i vapori dei succhi fuoriusciti dalle verdure che creano quindi una sorta di pentola a pressione. Assaggio la versione con dei pezzi di caciocavallo, inutile stare qui a dirvi l’incredibile bontà di questo piatto, che nasce come quasi tutti quelli tradizionali dalle urgenze nate dalla povertà. Amaro e dolce si rincorrono in un interessante andirivieni.
Non c’è solo la pecora a cena, però. Sul balcone c’è una fornacella che sprizza amore e vampe sulle quali si poggiano gli spiedi con gli gnumuredd. Che sarebbero i torcinelli assaggiati a Barletta, in pratica, ma qui ripieni di sole animelle. Il sapore è lo stesso, bullo e da Vero Cibo Biliciaro Certificato e Garantito che adoro. Ne mangio 11, uno tira l’altro.
In tavola ci sono anche mozzarelline e la cialledda, una sorta di panzanella fatta con pane raffermo inumidito dall’acqua di vegetazione di pomodoro e caroselli conditi a insalata. Insomma, non si scherza.
Per digerire il tutto facciamo tutti una passeggiata in centro. Passiamo davanti alla Cattedrale di Santa Maria Assunta fatta costruire da Federico II nel XIII secolo. É chiusa, mi tocca osservarla da fuori, imponenti i leoni all’entrata così come impressionanti sono le sculture in bassorilievo che si susseguono lungo tutto il cornicione dell’ingresso.
E comunque un dessert non ce lo dobbiamo fare? Sempre in centro entriamo in un bar abbastanza affollato – non ho segnato il nome, me ne dispiaccio – e mi viene consigliata la coppa della casa che è a base di gelato fiordilatte aromatizzato alla cannella. In Puglia non è diffusa la cultura della broscia come in Sicilia, quindi devo accompagnare il gelato con un cornetto, per farla leggera.
Tutto molto gratificante, eccetto il cornetto che risente di una vecchiaia di diverse ore ma non avevo pretese.
Domenica 13 agosto
Mi do tregua dalle cibaglie solo per dormire. Mi sveglio tardi, in costante riserva energetica, e quando le lancette dell’orologio dicono che è tempo di pranzo, siamo tutti attorno alla tavola: Francesco, Maria Teresa, papà Nicola e Vincenzo, che è nuovamente con noi.
Cose semplici: spaghetti con sugo di pomodorino fresco, salsiccia a punta di coltello in padella.
Il colpo gobbo però è il dolce, le cosiddette Tette delle Monache della pasticceria Reale. Hanno proprio la forma di una minna a punta, infatti mi sorgono pensieri un po’ sconcetti. Vestite di zucchero a velo, sono fatte con un misto di farine africane – qualunque cosa voglia dire – uova, zucchero, l’impasto diventa spumoso e gonfio, richiama vagamente la pasta choux. Sono farciti con crema pasticcera e crema al cioccolato.
Ogni tetta in bocca è un’esplosione, vi risparmio la sequenza di pensieri malati che ho sviluppato durante l’assaggio. A scanso di equivoci, sono diversi dai Sospiri, che sono glassati.
Incorporata l’ennesima razione di cibo, è tempo di mettermi a lavoro per la cena di stasera. Su esplicita richiesta di Francesco, mi cimento in un piatto che intitolo “Tonno Rosso non avrai il mio Scampo”, esperimento con due ingredienti difficili da far convivere.
Ad ogni modo, riesco nell’impresa di coniare un menu decente e non nego una certa soddisfazione nel vedere papà Nicola chiedermi il bis di antipasto e primo, cosa che stupisce Maria Teresa, con la quale converso durante la preparazione di paure, motivazione e altri argomenti dalla vocazione esistenziale.
A fine cena – in cui erano presenti anche due zii dei miei ospiti – sono cotto e stracotto ma salta fuori l’opzione: Facciamo Un Giro A Matera. E così sia.
Montiamo in auto e percorriamo in pochissimo tempo i 30 chilometri scarsi che dividono Altamura da Matera, due città in perenne competizione.
Matera è invero un gioiellino dal sapore preistorico. I due Sassi, Caveoso e Barisano, sono rivestiti dalla tipica luce itterica dei lampioni delle strade del sud. Dai vari punti di affaccio numerosi turisti si fanno immancabili selfie. Sullo sfondo, come lo scenario di un tetro film sui primi anni di vita della civiltà, le grotte immerse nel buio sembrano sorvegliare la città. Sono insediamenti risalenti al Neolitico.
Il centro della cittadina brulica di giovani che bevono e chiacchierano fuori dai numerosi locali sbocciati negli ultimi anni sfruttando l’onda del richiamo turistico.
Sento però che le forze mi abbandonano più rapidamente del previsto e i miei neuroni sventolano bandiera bianca. Raggiungo il cuscino e amen.
Menu della cena
Polpo spadellato, pesche percoche e basilico, arachidi tostate in crema
Spaghetti con ragù di triglia, stracciatella di burrata e timo fresco
“Tonno Rosso non avrai il mio scampo”: tonno in carpione, carpaccio e crema di scampo, melanzana (fuori campo: gelato di cipolla rossa fatto in casa)
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Leggi la prima parte del viaggio: #TonnoInTour | Puglia_2017: da Foggia a Cerignola passando per Vieste
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