Manna, piazzale del Governo Provvisorio 6, Milano
Ho una lista lunga così di ristoranti milanesi da provare. Il Manna di Matteo Fronduti era lì, scritto in stampatello sull’ingiallito foglio di una Moleskine, da ben prima che lo chef meneghino acquisisse notorietà mediatica vincendo Top Chef neanche un anno fa. La zona non proprio facilissima da raggiungere per un mezzopubblico-munito come il sottoscritto mi ha spesso spinto a desistere. Poi però ghermisco il Guarini e Gygus, miei compari palatali e non mi faccio sfuggire l’occasione per spuntare il locale dalla lista.
Dopo un MiTo – vermouth Punt-e-Mes, Campari, arancia, ghiaccio – sbevazzato alla Salumeria del Design, posto diabolicamente hipsterico in cui qualunque cosa guardi e tocchi è in vendita – però il posto è figo, merita un sopralluogo, approdiamo tutti e tre in piazzale del Governo Provvisorio, un’accogliente piazzetta contornata di verde. Siamo in quella che i milanesi, fastidiosamente, chiamano NoLo (North Of Loreto, in un costante impeto di newyorkesizzazione della toponomastica locale).
Varchiamo la soglia del ristorante e Fronduti è dall’altra parte del bancone, col baffone a manubrio e corpulento nella sua giacca bianca da chef a maniche corte. Ha nomea di tipo burbero e non è raro che risponda per le rime sui social e su Tripadvisor a clienti criticoni. Per testarne se le leggende metropolitane abbiano fondamento, esordisco con una rapida battuta sull’anticipo di due minuti sull’orario di prenotazione con cui arriviamo. Fronduti sta al gioco, ribatte scherzosamente e ci fa accomodare consegnandoci i menu.
Mi guardo intorno e osservo la prima delle due sale, quella in cui siedo. Da un omone così imponente che a guardarlo ricorda gli osti medievali ti aspetteresti un locale fitto di bottiglie e impetuoso con le pareti rivestite da legno caldo, invece l’ambiente è spoglio, volutamente minimale, ammantato in un grigio pallido. Una sala operatoria, tipo. Mi piace il contrasto.
Ordiniamo, al Guarini l’incombenza di scegliere il vino, un Aglianico del Vulture.
Arrivano gli antipasti: per me e Gygus Senza alcun dubbio, tradotto: battuta di ombrina marinata, mandarino e sedano; al Guarini giunge In bianco e nero. E viola (patata viola al cartoccio, fonduta di toma della rocca, tartufo nero). I nomi dei piatti sul menu sono tutti così.
L’ombrina è delicata e il mandarino la supporta senza soverchiarla. Piatto fresco, quasi estivo. Di tutt’altra foggia è la patata viola, di cui assaggio una forchettata: cottura leggermente indietro del tubero, fonduta e tartufo spingono in alto il livello. Molto buono.
L’attesa per il primo svirgola via tra chiacchiere musicali e vino, davvero ottimo. Quando mi si para davanti Fuma e brucia, che è un risotto mantecato con nduja e sopra della stracciatella leggermente affumicata, un fremito di pura eccitazione sessuale mi coglie. Godo come una faina, la piccantezza è decisa ma non furibonda e laddove interviene la stracciatella s’instaura un bel gioco di ruvidezza e finezza. Cottura perfetta così come la sapidità. Per me la cena potrebbe anche finire qui, soddisfazione ai massimi livelli e portata davvero Metal.
Assaggio comunque i piatti dei compari: mentre Plagio (spaghetti, pane, burro e acciughe) è tosto e rustico, Pasta all’uovo (paccheri, ortiche, pecorino e tuorlo d’uovo), sebbene l’impiattamento veda i diversi ingredienti separati, assume un significato nell’insieme. Io continuo a preferire il risotto.
Lo chef, affabile e senza menarsela, si avvicina chiedendoci se va tutto bene e si ferma un paio di minuti a chiacchierare con noi poco prima che arrivino i secondi. Se Gygus si becca Hai detto asparago? (asparagi bianchi, mandorle e limone) che non avrei mai ordinato, io e il Guarini ci sfondiamo con Riassunto di pollo: qui si gode tantissimo con l’aletta panata accompagnata da un chutney piccante che, invero, mi fa un po’ temere per la sacra seduta mattiniera di domani (in combo con la nduja sarà esperienza flambé); il petto è a fette sottilissime su cui giace della salsa barbecue ma è con la coscia confit – estremamente morbida – e la crocchetta di fegato che sembra foie gras che c’è l’erezione. Piatto ganzo forte e di cui ammiro il coraggio nel proporre il pollo, animale spesso ostracizzato dall’alta ristorazione. Horns up.
Col Guarini e Gygus ci guardiamo negli occhi, esageriamo. Prendiamo anche il dolce, crepi l’avarizia e con essa i trigliceridi. Vado sul classico, senza eccedere, Vai via dottore, leggasi anche tarte tatin con gelato alla vaniglia, onesta, senza voli pindarici, chiude bene il cerchio.
Anzi, no, la chiusura definitiva è un bicchierozzo di grappa morbida che mi mette a nanna.
La cucina di Fronduti mi piace, gli abbinamenti sono ponderati e privi di quell’ossessionante guarda-mamma-senza-mani che sta diventando sempre più frequente a Milano, una cucina in perfetto equilibrio tra tocchi quasi femminili e un approccio carnale e brutale dai sapori netti: prendere o lasciare, sembra dire ogni piatto. Io prendo, con sommo gaudio.
Costo a testa: 75 €. L’UST consiglia.
Stay tuna
[photo credits | quelle dei piatti sono mie, quella della sala l’ho presa dal sito del ristorante, quella dello chef da cipriamagazine.it]