Domenica 23 aprile
É così presto che farò tardi! Il pensiero che mi ossessiona ogni volta che ho un treno in mattinata e continuo a zittire la sveglia del cellulare. Come da copione, devo far le corse per giungere alla Stazione Centrale di Milano, trafelato e affannato, riesco a malapena a comprare una bottiglietta d’acqua e un panino di (s)fortuna.
Sul treno, accanto a me, siede una coppia che parla una lingua mezza finnica e mezza russa (saranno estoni? Lituani?). I miasmi corporei di entrambi non lasciano ben sperare per il proseguo del viaggio e non trovo sollievo neanche nel panino maledetto preso alla stazione, 4 euro di pura mestizia che meriterebbero una denuncia alla Buoncostume.
Con Deftones e poi Tim Hecker in cuffia, arrivo a destinazione.
Non sono mai stato a Venezia prima d’ora. Sono ancora illibato quindi mi si conceda lo stupore del bambino alla scoperta di un mondo sconosciuto. Resto estasiato già uscendo dalla stazione di Santa Lucia: un tumulto di gente che formicola, un vociare ossessivo mentre l’acqua del canale scorre pigra, attraversata da un paio di imbarcazioni.
Un po’ meno estasiato resto quando approdo nella residenza in cui alloggio. E premetto: ho prenotato due giorni prima senza guardare neanche quante stelle avesse, era quello che costava di meno vicino la stazione. Così il Ca’ Dario & Corte Canal è una stanza con lavabo accanto alla finestra, il bagno condiviso con le altre stanze e niente colazione. Servizi da Una Stella. Chissenefrega, me ne starò a zonzo tutto il tempo.
Infatti mollo tutto e parto alla ricerca di bàcari, la spina dorsale del “cibo di strada”, se vogliamo, veneziano. Osterie con vino a mescita (dette ombre) con cicheti, ovvero fette di pane a mo’ di crostino – ma non tostato – condite con insaccati, pesce, formaggi ma anche polpette e altre portate della cucina lagunare.
Ho una lista lunga così che non so se riuscirò a evadere del tutto, ma mi impegno. Vado verso Cannareggio e piombo da Al Timon (Fondamenta Ormesini 2754). Fuori diverse coppie silenziose dallo sguardo annoiato occupano i tavoli, mi siedo all’interno. Parto con un prosecco della casa e un cicheto con baccalà mantecato, giusto per battezzare il giro nel segno della tradizione. Buono ma senza mandarmi in estasi.
Un gruppo di anziani entra e saccheggia tutti i viveri, attendo un po’ che arrivino i rifornimenti. Rincaro la dose con un crostino con soppressata di testa. Molto meglio, il porco regala sempre grandi soddisfazioni. Costo: 5 €.
Poco più avanti c’è Paradiso Perduto (Fondamenta Misericordia 2540). Ha l’aspetto di un pub da combattimento, quelli che smazzano centinaia di coperti al giorno con un servizio un po’ sbrigativo. Ordino un altro prosecco – servitomi in bicchiere di plastica perché la cameriera teme che esca e invece trovo un tavolo libero – e sul piatto mi faccio mettere un folpetto – polpetto alla griglia tagliato a metà – e una sarda fritta in pastella.
Il folpetto ha ancora tutta la merdina nella capoccia ma lo mangio lo stesso senza schifi vari: buono e tenero. Male la sarda, col fritto ormai smorto e senza tenore. Il banco trabocca di cibo, le patate fritte sono l’articolo più richiesto. io mi astengo e vado oltre. Costo: 7 €
Qui i locali sono tutti in sequenza, sono già le 19 e mi fermo da Vino Vero (Fondamenta Misericordia 2497) che trabocca di gente dentro, fuori e di lato. Per raggiungere il banco e chiedere la mia razione ci metto un po’, complici anche due tipe che fingono di non avermi visto e mi passano avanti. I due prosecchi precedenti mi hanno ammorbidito verso il genere umano e non mi incazzerò, siete salve, stronzette. Qui i cicheti mi sembrano di qualità elevata. Esco con un calice di Grechetto “arancione”, aggraziato, morbido e particolare, insieme a una polpetta di carne fritta, un crostino con zizzona di Battipaglia e crema di zucchine e un altro con pancetta e radicchio.
La polpetta spacca di brutto ma a colpirmi è il gioco salato-amaro di pancetta e radicchio. Tutto molto bello. Costo: 10,50 €.
Attraverso mezza Venezia – alcune viuzze al buio e deserte non sono eccitanti – perché voglio assolutamente assaggiare le moeche – granchietti della laguna pescati nel periodo di muta, quindi privi di carapace, che poi vengono fritti – e arrivo al Vecio Fritolin che però non ha spazio per le mie chiappine.
Torno domani quindi riprendo la via percorsa e ripiombo a Cannareggio, all’Osteria Da Rioba (Fondamenta Misericordia 2553). Moeche neanche qui ma vabbè. Dentro non c’è posto, siedo fuori, fa un po’ freddo.
In carta ci sono pochi piatti con qualche guizzo creativo. Insieme a un calice di Fiano arrivano prima scampi in saor, molto buoni e delicati nonostante siano tempestati di cipolla rossa, il sapore del crostaceo non ne risente. Sono adagiati su un crostino morbido di polenta.
Mi pento amaramente di non aver preso lo sgombro in oliocottura, il più interessante tra i secondi, perché gli gnocchi di patata fatti in casa con granchio, cicoria, aglio e peperoncino mi deludono: la consistenza farinosa della pasta non mi piace, il condimento ha poco spessore col piccante latitante e la cicoria al limite della cottura.
Accanto a me una coppia di anglofoni sta cenando. Lei corpulenta, lui smilzo che sferra una forchettata all’insalata e un’altra agli spaghetti con acciughe e broccoli, un colpo all’insalata, uno agli spaghetti in un’alternanza costante scandita da un ritmo perfetto. Non dico niente, non penso niente, chiedo il conto. Costo: 40,50 €. Per oggi può bastare.
Lunedì 24 aprile
Prima di riprendere i miei giri gastrotonnati faccio un po’ il turista. Arrivare in Piazza San Marco passando per Rialto si rivela una fatica erculea.
La fiumana di gente è impressionante e a tratti ributtante. Trovo questa città straordinaria, d’un fascino arcano in cui ogni accesso di modernità mi appare fuori luogo.
Eppure è violentata da un turismo privo di senno, la gente sgomita eccitata di fronte le vetrine di D&G, Gucci e Trussardi anziché stare col naso all’insù ad ammirare la bellezza cadente degli edifici. Tante persone mi sono parse lì come per sbaglio.
Essendo da solo, ho fatto tanto people-watching, ho visto le foreste di bastoni da selfie a Rialto; i padri in tenuta ginnica da turisti che redarguiscono bruscamente figli stremati dalla marcia e stufi di avere padri in tenuta ginnica da turisti così infoiati; ho ammirato l’opulenza kitsch ostentata dai ristoranti turistici che piacciono tanto a russi, cinesi, arabi e americani.
A un certo punto, però, mi viene fame e mi ricordo del Vecio Fritolin (Calle Regina 2262). Quando arrivo, alle 12.45, la sala è vuota, mi accomodo a un tavolo accanto all’ingresso. Il cameriere è cerimonioso e prende rapidamente la comanda. Faccio pasto completo di 3 portate nonostante abbia visto i prezzi da ristorante d’alta fascia. Il locale è segnalato sulla Guida Michelin e la cucina trae ispirazione dalla tradizione veneziana con rivisitazioni moderne. C’è da dire che le puntate verso la sperimentazione mi paiono cose già viste da tempo (spume, disidratazioni, oliocottura) ma non faccio lo schizzinoso. Il cameriere mi propone di sorseggiare un Muller-Thurgau al posto del Ribolla che ho ordinato. Lo assaggio: meno fruttato del solito e con una spinta acida, molto sapido e minerale. Interessante e accetto lo scambio.
Tra l’altro il vino si coniuga bene sia all’entrée (il delicato sgombro in oliocottura con crema di patate, polvere di caffè e spinacino)
ma soprattutto con la spuma e pezzi di fegato alla veneziana con chips di polenta e cipolla disidratata: portata delicatissima (anche in fase digestiva), sapore rotondo e succulento senza eccedere in grassezza. Molto bene.
La carbonara di mare mi spinge in alto. Godereccia e superba, l’uovo è arricchito da una crema di vongole, il tonno affumicato richiama il guanciale della ricetta tradizione e la piovra che sta in cima è di una morbidezza tale che devo solo fare una leggera pressione con la forchetta per tagliarla. Cottura della pasta al punto giusto, sapidità ben regolata. Mi sto emozionando.
Intorno a me i tavoli si sono popolati: se sei da solo al ristorante e per evitare di parlare col tuo amico immaginario leggi un libro (nella fattispecie In viaggio con Erodoto di Ryszard Kapuscinski), gli altri clienti ti guardano come fossi uno strano animaletto esotico a cui lanciare le noccioline.
Noncurante degli sguardi perplessi, continuo il mio pranzo. Arriva il branzino preparato in quattro cotture: oliocottura – ancora? – con verdure (ottima consistenza, gusto delicato); con bisque di crostacei (inaspettatamente leggera che non tramortisce la nobile carne del pesce); in padella con asparago e spuma di topinambour (sapore più deciso con una lieve crosticina); al vapore con salicornia (si sente la sapidità dell’asparago di mare). Mi piace, eseguito con perizia in un percorso interessante di consistenze e sfumature di sapori.
Chiudo con caffè e grappa. Costo: 79 €. Prezzo pettinato, eh.
Il mio tenue corpicino mi propone una pausa-pennica. Nel giro di un paio d’ore sono pronto a tornare alla carica.
A furor di Follouà, zompetto verso Da Lele, uno dei bacari più celebri di tutta Venezia. Ma è Chiuso!
Tormentato dalla delusione, affranto dagli eventi nefasti, distrutto da un destino che mi è avverso, proseguo e sbuco in Campo Santa Margherita e m’infilo nel primo locale che trovo, il Bocon DiVino (Dorsoduro 2978). Il bancone non è appetitoso, sarà l’orario (sono le 17.45) ma è semi vuoto, è rimasto qualche crostino con delle cremine rapprese e una manciata di fritti già stantii alla vista. Ordino uno spritz e prendo un fiore di zucca in pastella e un baccalà mantecato in carrozza (come la mozzarella, panato e fritto).
Al primo morso capisco che questo fritto me lo porterò in grembo per un po’. Flaccido, un po’ unto, privo di emozione. Non finisco nemmeno lo spritz. Male, molto male. Costo: 7,20 €.
Come da copione, dopo neanche mezz’ora iniziano i rutti sommessi e lievemente acidi, col fritto appollaiato sullo stomaco.
Giro e rigiro a piedi nella speranza che il problema si risolva da solo. Dopo un’oretta tutto torna nella norma grazie ai miei succhi gastrici che farebbero l’invidia di un’anaconda.
Così approdo al Cantinone Già Schiavi (Fondamenta Nani 992), anch’esso una delle osterie più rinomate in Laguna. C’è parecchia gente, con un’età media alquanto elevata (quarantenni everywhere). Il mio desco è: un calice di Tocai, un pezzo di Montasio, baccalà mantecato, crostino con formaggio e rafano e uno col pesto.
Va da sé che il baccalà sia il migliore che abbia assaggiato finora, spumoso e morbido, invero sublime. Anche il crostino con formaggio e rafano mi fa drizzare gli antennini. Promozione a pieni voti. Costo: 7 €.
Pochi passi più in là e arrivo Al Squero (Dorsoduro 943-944), bacaro consigliatomi dalla Follouà Paola – a cui invio lo screenshot per dirle che, sì, sono un Tonno di parola. Purtroppo però da mangiare non c’è quasi nulla eccetto qualche polpettina di carne – molto buone – che accompagno con un bicchiere di Ribolla. Costo: 4 €.
Osservo il flusso pigro dell’acqua del canale, passano due gabbiani il cui verso sembra quello di un gatto seviziato. Ho del baccalà tra i molari, cazzo che dannato fastidio. Appena rientro in albergo devo tirare via un chilometro e mezzo di filo interdentale.
Ma prima di rientrare ho ancora un’ultima missione, c’è spazio per un ultimo sopralluogo. Torno in Campo Santa Margherita ma quel poco che è rimasto di edibile Alla Bifora non mi sconfinfera, così consulto Gugol Mapz e, preso da un’ebbra felicità, taglio in diagonale la città e compaio di fronte Al Portego (Calle de la Malvasia 6015).
C’è aria di baldoria, il banconista ci mette un attimo a mettermi davanti alla barba un calice di Garganega, 3 sardine in saor – con cipolla rossa anziché bianca – un crostino al formaggio con sfilacci di cavallo – mmm, boono – e due olive ascolane – palesemente surgelate. Tutto sommato, mi ritengo soddisfatto. Costo: 11,50 €.
Mi arrendo, per oggi mi arrendo. Sono quasi le 23, ho almeno una mezz’ora di cammino a piedi da affrontare. Senza esitazione, sebbene un po’ provato, vado a conservarmi.
Martedì 25 aprile
Per il check out sono puntualissimo, smollo i bagagli alla reception promettendo di tornare a prenderli prima che il treno mi lasci qui infischiandosene della mia esistenza e vado a fare shopping culturale alla Libreria Marco Polo, dove gli lascio quasi un centino. Tutti sorridenti, quando esco.
Alleggerito nella pecunia, come se avessi già speso poco nei giorni precedenti – c’è pure un souvenir costatomi parecchio – essendo ormai prossima l’ora di pranzo, cerco su Mapz dove si trova l’Osteria Anice Stellato, uno dei locali della mia lista. Gugol mi informa che oggi è chiuso. Così provo a vedere se da Alla Marisa c’è un posto: neanche per il cazzo, tutto prenotato e inoltre si paga solo in contanti e io ho davvero quattro spicci con me.
Niente da fare anche all’Osteria Ai Osti, c’è un putiferio così come alla Trattoria Ca’ d’Oro alla Vedova (Calle Ca’ d’Oro 3912). Entro lo stesso e chiedo al cameriere se c’è un posto libero. “Qui!” mi dice indicando il tavolo da 2 su cui poggio il fianco. Ringalluzzito, mi parcheggio e scruto il menu. É un locale storico della metà dell’Ottocento gestito sempre dalla stessa famiglia e rinomato principalmente per le polpette di carne. Non posso esimermi dal provarle, ne ordino due.
E in verità, non capisco tutto il clamore, l’impasto è pieno di pane, la carne è invero misera in proporzione. Ottima la panatura ma francamente quelle che ho mangiato da Vino Vero erano superiori.
Mentre leggo il libro nell’attesa della pasta, numerosi clienti arrivano chiedendo di sedersi, senza riuscirci. Una coppia in piedi con un bambino di 6-7 anni cerca di ghermire il cameriere nella speranza che gli trovi un tavolo. Durante i numerosi tentativi, il marito-papà inizia a frignare, non vuole aspettare che si liberi un tavolo, Andiamo Da Un’altra Parte, Cazzo Facciamo Qui, Non Ho Voglia Di Aspettare, Ho Fame, tutto in meno di un minuto, con la moglie che si guarda intorno, esausta. Spero che la signora chieda presto il divorzio.
Procedo coi bigoli in salsa, conditi con acciughe, cipolla e prezzemolo: gusto ruspante, parecchio sapido, la cottura della pasta è perfetta solo che c’è una quantità di olio paurosa, al termine sul fondo del piatto c’è una laguna unta in cui galleggiano dei rimasugli di acciuga e cipolla, come piccole isolette.
Sarei già sazio, annaffio il tutto con un calice di vino bianco – e una bottiglia d’acqua – ma porto al termine il mio compito e faccio fuori anche le schie – microscopici gamberi di laguna – bollite e condite con aglio e prezzemolo e accompagnate da polenta. Piatto senza pretese, sapore molto netto e semplice nonché soddisfacente. Mi domando se sguscino sti gamberetti uno per uno a mano, è un’impresa folle.
Non fanno caffè, chiudo con una grappa barricata un pasto che mi aspettavo onestamente di caratura superiore. Costo: 42 €.
Mi concedo un giro digestivo, l’ultimo prima di tornare a Milano e osservo attentamente la fauna turistica, ancora una volta. Il Mc Donald’s pullula di italiani mentre un gruppetto di teenagers americane addenta tranci di pizza prelevati da un take away scrauso e si profonde in elogi su quanto sia great e awesome quella pizza che, francamente, solo a guardarla sembra fatta improponibile in un mondo civilizzato.
Entro nel ghetto ebraico e un ragazzo con kippah e treccine ciondolanti mi guarda un po’ male appena legge la scritta in stampatello viola sulla mia t-shirt: BLACK SABBATH. Scusa, non volevo.
In un vicolo poco distante una coppia di giovani cinesi oberati dai bagagli citofona al B&B, il portone scatta, lui apre e poi tira a sé il suddetto portone che si richiude, lei lo rimprovera con un severissimo “a-oniò” o qualcosa di simile dal tono ascendente-discendente che probabilmente vorrà dire gran pezzo di coglione, chemminchia fai?. Li lascio lì, a risolvere le loro beghe coniugali.
Vado a prendere valigia e zaino e mi avvio verso la stazione gremita di gente. In tutto questo penso che avrei pagato una fortuna, in questa mia permanenza lagunare, per sentire qualcuno ordinare degli spaghetti alle gondole, per sbaglio o per goliardia poco importa, ma ciò non è mai avvenuto, così mi sono risparmiato i soldi, per lo meno questi.
Torno a Milano, s’è fatta una certa. Fffffiiiiga.
Stay tuna