É da un paio di mesi che cerco di buttar giù quattro-righe-quattro su uno dei dischi più inturgidisci-capezzoli degli ultimi anni, in fatto di post-rock, ma non ci riesco. Nelle ultime settimane ho una mole di distrazioni a catena che mi impediscono di secernere pensieri degni una consecutio logica tonnata che si rispetti, anche per questo sto cucinando un po’ meno e scrivendo ancora di più (meno).
Però, dato che non voglio bruciare qui un post della trascurata sezione Musica, parlerò in questa sede dell’ultima fatica dei Grails, che poi è la band di cui dovrei scrivere (ma di un altro disco loro). Insomma, questi qui sono in giro da quasi 20 anni, vengono da Portland, nell’Oregon e da che ne serbi memoria, non hanno mai composto un album che facesse schifo.
Ne ho seguito le gesta durante lo scorso decennio quando mi cibavo di pane e post-metal con lauti banchetti a base di Neurosis, Isis, Cult Of Luna, Mastodon, tutta roba che è rimasta fissa nella mia dieta acustica. Loro però erano ben diversi, sebbene tangenti. Più che il frastuono delle chitarre, l’ossessività di ritmi pachidermici i Grails restavano in contatto con quel giro grazie a uno spirito selvaggio e affascinante, cupo senza mai sfociare nel buio più assoluto.
Dopo un silenzio di 6 anni, se si esclude il compendio di vecchi brani non ancora pubblicati Black Tar Prophecies 4, 5 & 6 del 2013, i Grails sono tornati in pista lo scorso mese con Chalice Hymnal.
Un album che non cambia nulla nella poetica del gruppo, sempre saldamente ancorato a brani strumentali dalle forti melodie e dai suoni un po’ retrò, ma che ha come una solidità compositiva e narrativa disarmante.
L’anima epica non è stata scalfita e a ricordarlo accorre New Prague, che credo sia una delle cose migliori del disco. Così come non è andata persa l’aura romantica e decadente che torna viva e vegeta in episodi dall’alto coefficiente cinematografico come Deeper Politics (rimaneggiamento del titolo della loro opus magnum Deep Politics del 2011) o il tramonto tra le dune di Rebecca.
Col suo fascino arcano e un po’ orientale, penso che Chalice Hymnal sia una grande prova di forza e personalità, per niente anacronistica nonostante il tempo trascorra spietato e l’euforia per certi suoni sia scemata. Io vi dico che dovreste ascoltarlo.
E vi dico anche che m’è venuta fame e che quindi sarebbe l’ora di mettersi ai fornelli, smetterla di giochicchiare coi dischi e accendere il forno per portarlo a temperatura perché oggi devo preparare delle Lasagne di pane carasau con pesto di basilico, crema di patate e stracchino.
‘nghie, che pettine.
Rapido come una Pic Indolor, rivelazione dell’ingredienteria necessaria a soddisfare le fauci dentate e linguate e palatate di 4 fringuellini o fringuelline o misti:
– pane carasau, dose a sentimento
– 400 g basilico
– uno spicchio d’aglio
– sale grosso
– olio extravergine d’oliva
– pecorino e parmigiano, fate vobis, anche o l’uno o l’altro e fate vobis anche sulle quantità
– 1,5 kg di patate a pasta bianca
– burro
– 300 g di stracchino (o anche crescenza, insomma, uno di quei formaggi lì)
Faccio un attimo qualche flessione alla barba, che se è flessuosa e ben sgranchita cucino meglio. Via!
Allora, patata, tubero sublime ipocalorico, se io ti dico: balza dentro quella pentola piena d’acqua bollente in cui ho appena messo un pizzico di sale, tu cosa mi rispondi? Ti rifiuti? Come osi, stronza? Eh? Vai subito a lessarti prima che chiami gli sbirri e ti ci ficchi coercitivamente. Tutte quante, tagliate in quattro ma con la buccia, quella ve la tolgo dopo.
Dopo aver convinto con metodi democratici le patate a lessarsi per circa 15-20 minuti, le scolo senza gettar via l’acqua di cottura, le spello e le schiaccio con lo schiacciapatate versando lo schiacchiume in una ciotola. Faccio raffreddare per qualche minuto.
Quel qualche minuto utile per fare il pesto. Non me ne vogliate ma stavolta non c’ho voglia di mettermi a lavorare di polso col mortaio, vado di frullatore. Eh, astenersi tradizionalisti cagacazzo, pliz’.
Quindi, nel frullatore compaiono, come per magia: basilico, qualche granello di sale grosso e un filo d’olio. Frullo: frlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrl e aggiungo a filo dell’altro olio e poi ancora. Quando intravedo della cremosità, schiaffo il formaggio grattugiato e mescolo per avere una crema ancor più omogenea ma non omogeneizzata, anche perché non vedo imberbi marmocchi nei paraggi, a chi cazzo dovrei darlo del pesto omogeneizzato?
Oh, devo fare la crema di patate che, in verità, è un purè. Ma al posto del latte, uso l’acqua di cottura delle suddette e suddite patate. Quindi: in una pentola scaldo i tuberi schiacchiati, aggiungo del burro “a sentimento” e poi qualche mestolo di acqua di cottura. Oh, vado a occhio, sono un senzatonno approssimativo. Quando c’ho una consistenza ganza, passo tutto al cinese – che è un colino, non un asiatico in carne ed ossa – per ottenere una purea liscia come un culo di marmocchio, lo stesso a cui non potrò mai dare il pesto omogeneizzato di cui all’allegato B.
Sono pronto per il lasagnaggio. Afferro la teglia, busco un cucchiaio di purè di patate di fondo, poi procedo con gli strati: pane carasau, purè, pesto e fettine di stracchino, di cui ne mangio una metà durante l’operazione. Fino a esaurimento scorte o al raggiungimento di 5 piani di lasagnezza.
Ficco in forno preriscaldato, 180° per 15 minuti solo sotto, poi grill per circa 8 minuti a 220°. E cu si’ po’ dari, si’ duna.
Stay tuna
[photo credits: quelle del piatto sono mie, quelle della band l’ho scippata su alarm-magazine.com, la copertina del disco su stereogum.com]