Milano, 22 febbraio 2017
C’è una cosa che ho sempre reputato fastidiosa in molti “personaggi famosi”. Ovvero quando, come a scrollarsi di dosso qualche oscura colpa, affermano “io faccio tanta beneficienza ma non lo dico a nessuno”. Perché non lo dici a nessuno? Perché non sfrutti la tua popolarità per dare un segnale alle persone che ti seguono, a sensibilizzarle riguardo certi temi dimenticati dalle cronache, troppo occupate a fare le pulci a politici vari ed eventuali o a raccontarci i dettagli di questo o quell’altro omicidio di cui potremmo dispensare? Perché “non lo dici a nessuno”? Non credi che il fatto di essere un “personaggio famoso” ti investa di un ruolo sociale, di una responsabilità e mostrare quanto di buono fai sia meglio di un inutile selfie mentre auguri Buongiorno ai tuoi fan? O hai paura di apparire narcisista?
Be’, allora io sono il primo dei narcisisti e credo nel ruolo sociale di un “personaggio famoso” – sebbene io non lo sia – ed è per questo che ho accettato senza remore la proposta di Just Eat Italia di seguire la prima consegna di Ristorante Solidale. Di cosa si tratta? Di questo.
Patrocinato dal Comune di Milano e realizzato in collaborazione con Caritas Ambrosiana, Ristorante Solidale è il food delivery votato a combattere gli sprechi alimentari. C’è una legge in Italia, la 166 del 2016 approvata per favorire il recupero e la donazione delle eccedenze alimentari a fini di solidarietà sociale, destinandole in via prioritaria all’utilizzo umano e per contribuire a ridurre gli sprechi, soprattutto delle attività di ristorazione che di eccedenze ne hanno sempre molte. La legge prevede anche agevolazioni fiscali per quegli esercizi che ne ricorrono ma finora sono pochissimi i ristoratori a conoscenza di tutto ciò. Per questo Just Eat, in collaborazione con l’azienda di consegne Pony Zero e con l’aiuto di diversi ristoranti del suo catalogo, ha indetto per il 22 febbraio 2017 la prima consegna di quello che, spero, diventi un progetto ad ampia scala che possa coinvolgere più parti attive possibili. E che aiuti anche a una riflessione di noi consumatori a evitare di gettare il cibo, a comprarne il giusto. Perché l’altra faccia dell’opulenza è il malessere di altri.
Le pietanze, raccolte da un corriere, vengono poi consegnate, almeno per questa occasione, a tre comunità gestite da Caritas Ambrosiana: “Pane e Peschi”, casa per adolescenti affetti da disturbi psichici e dai trascorsi familiari tumultuosi; “Casa Alloggio Teresa Gabrieli”, comunità per malati di Aids; “La Locomotiva”, comunità a dimensione familiare per minori. Io oggi andrò nei primi due.
Alle 17.30 arrivo puntuale davanti Lapa, ristorante brasiliano di via Goldoni 3. Fuori, dentro un furgone bianco, c’è colui che diventerà il mio compare di viaggio: Denni (scritto proprio così, glielo chiedo pure, “Si scrive Danny?”, “No, proprio come lo pronunci”) insaccato dentro il giubbino rosso con la scritta Just Eat che gli campeggia sulla schiena. Lui carica 8 porzioni di riso con fagioli e 12 di verdure.
Montiamo su e si va dritti verso Kombu, in zona Garibaldi, ci sono 15 tempure e riso saltato da prendere in carico.
Il furgone su cui viaggiamo è elettrico come tutti i veicoli in dotazione a Pony Zero. Denni mi spiega alcune cose, tipo che il veicolo ha 200 km di autonomia, che con 80 centesimi fai un pieno ricaricandolo in uno dei punti a2a (società che fornisce gas ed energia elettrica a Milano) adibiti a rifornire le auto elettriche, che può entrare tranquillamente nelle zone a traffico limitato. Tra una chiacchierata e un’altra ci diamo dentro e carichiamo tutti gli altri pasti a zonzo per Milano: 12 porzioni di pasta da Il Bue e la Patata; 10 panini da Panini Crocetta; 7 porzioni di polenta da I Mangiapolenta e 12 piadine da C’era Una Volta Una Piada.
In orario, io e Denni c’involiamo verso via Consolini 3, in zona Cimitero Maggiore perché è lì che dobbiamo portare tutte queste pietanze.
Le due comunità, Pani e Peschi e Casa Alloggio Teresa Gabrieli, sono una accanto all’altra. Entro.
Non voglio farla tragica o melensa, ma confesso di aver avuto una stretta al cuore appena ho messo piede lì dentro. Gli ambienti sono accoglienti, tutti gli ospiti in buone condizioni, riuniti come in famiglie, ma la sensazione che ho avvertito è stata come un forte senso di colpa. Colpa per godere di ottima salute, di fare un lavoro che mi piace, di avere una famiglia che mi ha sempre sostenuto. Per essere fortunato, pur essendomela creata da me questa fortuna con scelte a volte sofferte. Ma soprattutto, di non fare abbastanza. Mi è parso di entrare in un’altra dimensione sganciata dal mondo in cui vivo, in una dimensione di cui non ho mai sentito l’eco disperata. Sono situazioni di cui tutti ci dimentichiamo e ce ne dimentichiamo perché presi dalle urgenze delle email di lavoro, attratti dal magnete degli schermi dei nostri smartphone. Schiumiamo di rabbia ogni giorno contro questo o quell’altro politico, scarichiamo responsabilità a destra e manca dello sfacelo in cui viviamo ma nel nostro quotidiano che contributo? Scorgiamo solo i bersagli delle nostre frustrazioni e non riusciamo a scorgere il malessere nello sguardo altrui. Vediamo nemici ovunque e non siamo capaci di allearci a chi tutto questo spreco di energie sarebbe utile.
Denni porta le sporte col logo di Just Eat nelle rispettive cucine e mentre usciamo da Casa Alloggio Teresa Gabrieli una delle ospiti, che avrebbe potuto avere 30 anni come 50, il volto scavato dalla malattia con gli zigomi puntuti che spingono e la voce arrochita da tonnellate di sigarette mi dice: Grazie, grazie per essere venuti, è una bella sorpresa questa, ci ha fatto tanto piacere. Mi viene quasi da piangere, lo giuro, la semplice apparizione di due sconosciuti è per loro un evento straordinario.
Mi fermo per qualche minuto a parlare con Matteo, educatore-responsabile di Pani e Peschi. Gli chiedo quale sia la giornata-tipo di questi ragazzi, ce ne sono 5 ospiti. Mi dice che molti hanno già assolto l’obbligo scolastico, due frequentano ancora le medie. Ci preme a sottolineare come là fuori, nel mondo della gente normale, ci sia una grande confusione sul ruolo delle comunità, che continuiamo a percepirle come mondi a se stanti, segregati e slegati dal tessuto sociale, esclusivi – nel senso “che escludono” – anziché inclusivi, rispettando alla lettera la descrizione che fece saggiamente Michel Foucault nel suo bellissimo saggio “Sorvegliare e Punire” (ma non solo) riguardo la sparizione dell’individuo impuro e dissonante per restituire pulizia e armonia alla società. Dovremmo fare un grande passo culturale e ribaltare il modo in cui intendiamo le comunità, ovvero centri che recuperano persone con cui la vita è stata barbara e aiutarli a reinserirsi in società.
Ci facciamo una foto insieme, io, Denni, Matteo, Lorenzo di Just Eat che ci ha attesi in loco e Chiara, una ragazza ospite di Pane e Peschi, maggiorenne, che ci teneva a posare con noi.
Al di là della nobile causa, ovvero ridurre gli sprechi alimentari, uno dei più grandi schiaffi morali che la nostra società compie quotidianamente e senza scrupoli, quest’iniziativa è un’occasione per riflettere su tutto ciò. Non basta indignarsi, non basta sentirsi toccati per pochi istanti e relegare il tutto a un “vabbè” con tanto di spallucce. Questi sono esseri umani che hanno bisogno del contributo dell’intera collettività, non solo donando pasti, ma aprendo loro le porte. Loro e tanti altri come loro al momento esclusi dalla nostra società che ambisce a una perfezione impossibile.
Perché il motto “Restiamo umani” è bello e spinge all’empatia ma resta solo un vuoto slogan da esibire negli stati di Facebook se non ci sono atti reali che lo sostengono e quello sì che è vero narcisismo, ma della peggior fattura.
Stay tuna