Ryukishin, via Ariberto 1, Milano
Prima che insorgiate con le solite obiezioni, ho detto “uno dei migliori”, non “il migliore”. Oh, chiariamoci prima che sguinzaglio il fido Neurone Fritto a venirvi a sculacciare con la schiumarola.
Be’, il perché ve lo spiego mentre vi racconto di quella sera che, insieme alla mia socia culinaria Elisabetta, detta anche LaRicciòla perché ha un cespuglio riccioluto e accanto a un Tonno come me serve sempre un nomignolo subacqueo, in visita a Milano per una cena che avremmo preparato la sera successiva, mi sono intrufolato in questo locale.
Locale che conoscevo per aver presenziato, mesi fa, a un pranzo stampa ma prima di metter su un articolo di senso compiuto, ho preferito tornare da cliente perché è così che si valuta seriamente un ristorante.
Bene, ci fanno accomodare sugli sgabelli che puntellano il bancone che costeggia la cucina a vista, che non è il consueto acquario che va tanto di moda circondato da pareti di vetro in cui i cuochi nuotano tra altezzose colonne di fumo. Non c’è separazione, i cuochi qui, come nei sushi bar giappo, puoi toccarli, se ti sporgi. Ma io non li tocco e li lascio lavorare.
Prima di ordinare, però, brevi note biografiche. Ryukishin è arrivato la scorsa estate grazie alla liaison tra Andrea Zhan e lo chef giapponese Tatsuji Matsubara, proprietario dei ristoranti Ryukishin di Osaka, Kyoto e Londra. Sì, è una catena ma di quelle fatte bene in cui la qualità è imprescindibile. Non ci sono sushi, sashimi e quelle robe da all you can eat giappo-cinesi bensì la cucina casalinga nipponica corredata dai cerimoniali dell’Omotenashi, l’arte giapponese di ricevere gli ospiti.
Il menu è bello saporito e ci sono un bel po’ di cose che mi stimolano il palato ma non posso far man bassa di tutto, mi tocca scegliere. Con LaRicciòla, assisa su uno sgabello accanto al mio, si delibera per un prendiamo-e-dividiamo che mi sembra la migliore delle opzioni possibili in questo, che non è il migliore dei mondi possibili, con buona pace di Leibniz e Pangloss.
Scegliamo un vinello, Passerina delle Marche, sapida e minerale. Passa poco e arrivano gli antipasti.
Goma wakame a troneggiare a mo’ di piramide vegetale in un misto di sapidità dell’alga, umami e piccante che si intrecciano.
Inizio leggiadro che termina subito quando ci si fionda su patatine e karaage, che sono dei bocconcini di pollo fritti: nessuna unzione, il tutto è asciutto e crocca per bene.
Accanto ci sono loro, una delle mie passioni gastro-nipponiche: i gyoza. Ovviamente con ripieno di porco, neanche a dirlo. Sublimi sia perché il ripieno è saporito ma non troppo carico di aromi, che spesso sovrastano la carne, sia perché, più tardi, non mi si riproporranno sotto forma di Burp! all’aglio.
I camerieri sono sempre molto cordiali e pronti ad assisterti qualora qualche voce del menu sia incomprensibile. I cuochi dirimpetto macinano piatti ma non sembrano indemoniati come spesso accade nelle cucine. C’è una calma zen diffusa, il che aiuta anche le conversazioni dei clienti. Il locale è pressoché pieno.
Fatti fuori gli antipasti, tocca alle portate principali, il motivo per cui sono qui: il ramen. Io scelgo il Paitan Ramen, LaRicciòla lo Shoyu. Entrambi in versione Deluxe, ovvero arricchiti da uovo marinato.
Nel Paitan gli spaghetti sono immersi in un brodo reso cremoso dall’amido del riso – chiedo allo chef come si fa il brodo ma lui si divincola dandomi dettagli appena accennati, la ricetta è segreta – con delle fette di maiale chashu – pancetta di maiale marinata in salsa di soia e aromi e cotta a fuoco lento – germorgli di bambù, cipollotto e barbabietola. E l’uovo marinato.
Be’, io sto godendo fortissimo, è un insieme armonioso e delicato ma dalla forte personalità, la cremosità del brodo è seducente, le verdure danno ognuna il proprio contributo senza spezzare gli equilibri. La carne è ultra-morbida e succosa con la striscia di grasso che si scioglie letteralmente in bocca. L’ovetto è tenue, ci sta benissimo. In più non è per niente spossante, non appesantisce, vorrei non finisse mai. Ma a un certo punto, inesorabilmente: finisce.
Mi concedo qualche bacchettata dello Shoyu della Ricciòla, che è fatto egregiamente e differisce dal mio per la cremosità del brodo ma è proprio questo il suo deficit, se comparato al Paitan. Ma non demerita, da comunque la merda a diversi ramen che ho mangiato in giro per Milano.
Siamo satolli ma un girello di mochi, tris con sesamo, the verde e mango: promossi tutti.
Ok, anche il sake caldo, va bene. Eh, come si dice dalle mie parti: “iurnata rutta, rumpila tutta” (rutta non sta per rutto).
Il ristorante si è svuotato, la cucina sta chiudendo e si chiede il conto: 81 € complessive. E la boccia d’acqua è rimasta lì, quasi del tutto intera. Come sempre.
Nota finale: sapidità dei piatti perfetta, così come le cotture. Fase digestiva liscia e senza fastidi.
L’UST consiglia.
Stay tuna
[photo credit | gli scatti dei piatti sono miei, quelli del locale e l’immagine di copertina di Jacopo Ventura]