Lo scorso decennio ho seguito con interesse maniacale ascesa, evoluzione e tramonto della scena post-hardcore. Essendo un universo gigantesco e dai confini molto labili, per “post-hardcore” intendo quelle band che uniscono metal, progressive, doom, post-rock e psichedelia seguendo la lezione dei Neurosis di Through Silver In Blood, album spartiacque del genere, così come Venom dei Breach.
Sebbene il genere abbia scaturito un microcosmo di sottogeneri (dal math dei Dillinger Escape Plan al death dei Converge, passando per le derive heavy-sludge dei primi Mastodon), quello che ha più attirato la mia attenzione è stata la costa dominata da band come ISIS e Cult Of Luna, i più attendibili eredi dei Neurosis.
Gli ISIS di Aaron Turner hanno probabilmente generato i lavori più interessanti e completi, apponendo un’intelligente cerniera tra il post-doom e il post-rock culminata in Panopticon, il loro capolavoro assoluto. I Cult Of Luna, nonostante stiano mezza spanna sotto, sono la formazione che più ho amato e continuo ad amare.
La formazione è di ben sette elementi che si aggregano nel 1999 a Umeå, cittadina di circa 80.000 abitanti nel nord-est della Svezia, città natale di quei terroristi sonori dei Meshuggah, ma anche dei Refused. Dai primi prendono le distanze non sporcandosi mai le mani col techno-thrash, dai secondi assorbono l’anima hardcore. Infatti il primo parto della band arriva nel 2001 e prende il titolo dal nome del gruppo: grezzo e muscolare, Cult Of Luna inanella una serie di brani furibondi parenti di primo grado dei maestri Breach (anch’essi svedesi ma di Luleå, situata un po’ più a nord di Umeå).
Il centro compositivo è Johannes Persson, chitarrista e voce che nel 2012 prenderà definitivamente il posto dietro il microfono del dotato cantante Klas Rydberg.
The Beyond esce nel 2003 e segna un ulteriore passo avanti e una definizione di uno stile personale. Sono 74 minuti di maree di catrame che si innalzano impetuose grazie a riff fiammeggianti e a tratti brutali (The Watchtower, Leash, Receiver).
Trascorre un giro di calendario e a ottobre del 2004, l’anno di grazia del post-core (da giugno a ottobre escono in sequenza The Eye OF Every Storm dei Neurosis, Miss Machine dei Dillinger Escape Plan, Leviathan dei Mastodon, You Fail Me dei Converge, Panopticon degli ISIS) arriva Salvation. Artwork bianco e minimale, quasi a voler prendere le distanze dai precedenti lavori, è l’apice creativo dei Cult Of Luna. Lo space rock alla Pink Floyd si distende su radure disadorne, larghe lande di vuoto si alternano a spaventosi muri di suono in un andirivieni avvincente che trova in Leave Me Here, Echoes e Waiting For You la propria sublimazione. Disco stupendo.
Con cadenza biennale i Cult Of Luna rilasciano due nuove prove, il desolante e affascinante Somewhere Along The Highway nel 2006 e il più caustico e aggressivo Eternal Kingdom del 2008, lavori che assestano definitivamente il sound del gruppo.
Interrotto soltanto dal DVD live Fire Was Born, il silenzio in cui si inabissano i COL termina nel 2013 con Vertikal (e poco dopo con Vertikal II), concept ispirato al film Metropolis di Fritz Lang – l’ossessione per il controllo delle masse tramite la propaganda del potere è un tema che percorre tutti i lavori della band. Rydberg è andato via e Persson non ne fa rimpiangere l’assenza alla voce. La tracklist rivela composizioni eccellenti (l’odissea di Vicarious Redemption, l’assalto all’arma bianca di I: The Weapon, la struggente conclusione di Passing Through) e, nonostante non ci siano apparenti sorprese, gli arrangiamenti sono corali e minuziosi grazie a un consistente uso di synth e pattern elettronici.
Al termine del tour di supporto di Vertikal la band annuncia uno iato a tempo indeterminato, probabile prodromo di uno scioglimento. A sorpresa, arriva lo scorso anno un nuovo disco in condominio con la cantante Julie Christmas (ex voce dei Made Out Of Babies, autori di tre dischi niente male e, soprattutto, del supergruppo estemporaneo Battle Of Mice che ha lasciato soltanto il bellissimo A Day Of Nights nel 2006): Mariner non parte coi favori dei pronostici visti i genitori, una band probabilmente in crisi, una cantante caduta nel dimenticatoio. Ebbene, basta la sola The Wreck Of S.S. Needle per spazzare via ogni dubbio.
Sgomberando il campo da menate “da critico”, i Cult Of Luna non hanno inventato nulla, hanno rimaneggiato stili e linguaggi altrui sapendo però ben personalizzarli. Credo sia questo il loro vero grande pregio, oltre al fatto che li trovi soggettivamente poetici e selvaggi allo stesso tempo, quasi romantici – nel senso di sturm und drang – cerebrali come i Tool eppure mai troppo distaccati, sempre terreni, sempre umani.
M’è parso quindi doveroso omaggiarli con un piatto che si ispiri alla loro musica, fatta di contrasti, di un’anima suadente avviluppata in una veste nerboruta.
Quindi mi spremo le meningi e trovo la quadra: l’anima suadente dove la ficco? Faccio una pasta ripiena, magari con una farcia delicata. Di pesce, perché la loro musica mi evoca gli abissi. Branzino, sei arruolato!
I contasti come li creo? Ah be’, semplice: se scelgo i carciofi che sono nel contempo dolci/amari mi serve qualcosa che dia acidità. Una salsa di more, aspra e anch’essa dolce ma non troppo. Se l’arricchisco con la salvia ha pure un retrogusto amarognolo persistente.
Ma oltre agli abissi, i Cult Of Luna richiamano concettualmente le foreste scandinave: topinambur nel ripieno, more e salvia sono concettualmente legati ai boschi. Bella lì.
E infine, croccantezza come contraltare a tutto questo ambaradàn di morbidezza: noci nella farcitura della pasta, crudo croccante come topping, che mi da pure quel calcetto di sapidità che mi serve.
Oh, le mie meningi frizzano dopo tutto sto lavorìo psicotonnato, ma ora c’è da travagliare. Ufficialmente sono dei Ravioli alla Cult Of Luna ma il vero nome di sto piatto è Ravioli ripieni di branzino, topinambur e noci con crema di carciofi, salsa di more e salvia e prosciutto crudo di Parma croccante.
Mi sgranchisco le narici e v’offro la lista degli ingredienti, prendete nota, Follouà (dosaggi per 4 personaggi che vivono negli agi ma anche tra i disagi):
Per la pasta
– 300 g di farina 00 (o con una forza glutinica compresa tra W260 e W280)
– 3 uova fresche
– sale
Per il ripieno
– 2 branzini (se di allevamento, altrimenti uno pescato, di quelle bestie da 2 kg va bene, ma v’avanza un bel po’ di carne)
– 2 topinambur
– gherigli di noci, quantità a sentimento
– sale
Per la crema di carciofi
– 8 carciofi interi, se hanno il fusto lungo meglio ancora
– 0,5 l di brodo vegetale
– olio extravergine d’oliva
– sale
Per la salsa di more
– 40 g di more
– 2 o 3 foglie di salvia fresca, in base alla dimensione
– burro chiarificato
– sale
Per il prosciutto
– un porco allevato così bene che dia 4 fette da manuale dell’insaccatologia
Sarà lunga, v’avverto.
Il mio consigliere di fiducia, il Neurone Fritto, dopo aver smesso di scaccolarsi, mi consiglia di iniziare dalla pasta. E io lo ascolto. Faccio una fontana con la farina, nel cratere centrale verso le uova che sbatto dolcemente con una forchetta proprio dentro sto cazzo di cratere ma senza rompere gli argini altrimenti l’ovetto scappa e io bestemmio fortissimo. Ah, ci metto un pizzico di sale. Quando c’è densità, posso slavangare tutta la farina e con sinuosi movimenti dei palmi impasto. Ottenuta una massa elastica, giro di pellicola e via in frigo per un’ora. E nun ci scassari a minchia.
Branzino, vie’ qua che tocca a te. Con la forbice da cucina asporto tutte le pinne, dorsali e pettorali e pelviche e anali, lascio solo la caudale, ovvero quella “della coda”. Spatacchio via le squame con l’apposito attrezzo, il desquamatore. Ritaglio i filetti con un coltello per disosso/sfilettamento incidendo lungo il dorso e il ventre – ah, il pesce è già privo di viscere – e nei pressi di pinna caudale e branchie. Con l’altro coltello, quello ganzo per sfilettare che ha la lama che si piega ma anche che mi taglia per bene se non sto attento, “sentendo la lisca” come si fa quando si guida e “si sente la frizione”, penetro nella carne, non col pistolo ma col coltello e vado spedito e taglio sti minchia di filetti. Che fatica. Ma non è finita, e ti pare? C’è da togliere la pelle. E così volto il filetto, pelle in alto, incido con perizia chirurgica tra la polpa e la pelle e man mano che si stacca, incido e tiro delicatamente finché non ho finito.
Sto sudando come un porco sebbene abbia scoperto di recente che il detto sia fisiologicamente errato perché i maiali non sudano ergo l’umanità dovrà trovare un detto fisiologicamente più corretto. Detto ciò, proseguo.
Mi metto i miei bei guantini in lattice monouso e senza polverina stronzina e pulisco i carciofi togliendo foglie e barba interna, facendo a tocchetti il gambo e mettendo tutto in una ciotola d’acqua fredda acidulata con del succo di limone (segnate sulla lista degli ingredienti, me l’ero dimenticato e non ho voglia di tornare su per aggiungerlo).
Torno a pensare alla pasta ma stavolta ai suoi organi interni: devo fare il ripieno. Così afferro i filetti di branzino, li taglio a cubetti grandi quanto quelli di una tartare. Ah, merda, ho dimenticato di dirvi che ho sbollentato già il topinambur dopo averlo sbucciato con uno spelucchino, ci mette più tempo rispetto a una patata normale: una volta cotto e morbido lo scafazzo tutto riducendolo in purea, lo lascio raffreddare. Le noci le sguscio e le trasformo in granella col mortaio. Unisco tutto, impasto impiastricciandomi le mani, aggiusto di sale. Canto una canzone.
Scaldo dell’olio in una padella e scaravento i carciofi che ho tagliato a listarelle. Li rosolo e poi proseguo la cottura con del brodo vegetale finché non sono morbidissssssssssimi tanto da poterli frullare: frlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrlfrl. La purea ottenuta la passo alla chinoise togliendo così i pezzetti di foglie non del tutto frullati, ciò che mi resta torna sul fuoco poco prima di servire. Aggiusto di sale.
In un altro pentolino scaldo una noce di burro di chiarificato e adagio a sfrigolarrrrrr le more che pian piano rilasciano il succo. Dopo circa 7 minuti sono talmente morbide e disfatte che posso passare anch’esse alla chinoise ma senza frullarle, solo schiacciandole con la forchetta per eliminare i semi e ottenere una crema abbastanza fluida. Qualora non lo fosse, di nuovo sul fuoco con un po’ di burro per renderla più liscia. Aggiusto di sale e unisco la salvia che ho appena tritato mentre voi eravate girati.
Ho tirato fuori dal frigo la pasta da circa mezz’ora in modo da non lavorarla fredda rischiando di romperla. La stendo con la macchina-che-serve-per-stendere-la-pasta-fresca senza mai aggiungere farina in modo da ottenere una sfoglia liscissima. Ricavo dei dischi con un coppapasta che poi riempio con la farcitura. Inumidisco un dito, a quanto pare si chiama indice, e lo passo intorno a una metà della circonferenza del disco in modo che, ora che chiudo la sfoglia a mo’ di mezza luna, le due parti possano incollarsi. Così per tutti i ravioli.
L’acqua in pentola bolle, il sale grosso s’è disciolto, lancio i ravioli che cuoceranno per 5 minuti circa mentre in un padellino accanto, prima di accendere la fiamma, ho parcheggiato il prosciutto crudo che, col calore progressivo, rilascia lentamente il grasso e si croccantizza e io mi eccito e poi basta perché: DEVO IMPIATTARE!
Minchia, finalmente, non ne potevo più, sono spossato: un cucchiaio di crema di carciofi come base, poi i ravioli sopra, un’altra lappatina di crema di carciofi, poi la salsa di more e salvia e il crudo croccante sopra. Ah, in foto di salsa di more ce n’è poca ma non lesinate: più si sente, più il piatto è ganzo. E si mangia ascoltando gli scatarri dei Cult Of Luna, neanche a dirvelo.
Stay tuna
[photo credits | il piatto è mio, le foto della band sono scippate da Bandcamp.com e YouTube]