Sulla mia agenda in pelle squamata di pesce San Pietro avevo segnato da tempo un sopralluogo da Don Juanito. Da rispettabile e temuto ispettore della Guida Minchiolìn di cui, come tutti ben saprete ormai, sono fondatore e membro unico, non potevo balzare a pinne pari la cucina di questo ristorante.
Prenoto un tavolo per due, sono con una persona la cui identità dovrà restare segreta perché ricercata per traffico illegale di consigli alimentari. La chiamerò Prippy (nome di fantasia).
Fuori fa un freddo che non le manda a dire, appena varcata la soglia un tepore c’avvolge e subito un cameriere ci invita a scegliere un tavolo. Ce ne andiamo in fondo, lontani da occhi indiscreti che possano riconoscere Prippy (nome di fantasia) e fare una soffiata alla polizia alimentare.
Be’, intanto la sala è elegante ma non impettita, dettagli curati e degni di un ristorante di fascia superiore alla media. Il layout è stato rinnovato di recente, così come il menu che non ha però perso la vocazione verso la carne sudamericana di qualità.
Al tavolo ci sono già dei piccoli stuzzichini, faccio fuori senza remore le chips di platano fritto.
Tra il personale di sala tutti hanno un accento sudamericano, tant’è che pongo il quesito alla sorridente cameriera che ci versa il vino, un Saurus Malbec argentino – che non conosco, infatti lo scelgo per questo – e ci dice che Sì, Siamo Tutti Del Suramerica (la “r” è trascrizione fedele).
Bene, il vino ci piace. Consultiamo la carta per la cibaglia. Ovviamente il cavallo di battaglia nitrente di Don Juanito è la carne e verso il nostro tavolo arrivano sontuosi effluvi di Reazione di Maillard dall’adiacente cucina. Secerno bava.
Sciogliamo la prognosi sulle portate, nel frattempo testo il pane: buono, soprattutto i crostini.
Con Prippy (nome di fantasia) decidiamo di prendere piatti da poter dividere per assaggiare più cose possibili. L’attesa è esigua e planano in sincrono: un empanada ripiena di carne, olive, uova sode e spezie argentine e una causa peruana, uno dei piatti tipici della cucina del Perù che si fa con un purè di patate arricchito dal piccante dell’aji amarillo e acidulato dal succo di limone – in questo caso lime. É un tortino ripieno, al centro corre una fascia di maionese con gamberetti.
Divido le portate in eque metà. L’emapanada è ottima e croccante, le spezie si avvertono ma senza prevaricare, la carne è tenera. Ben fatta la crosta del panzerotto, il fritto non è affatto unto. Sapido il giusto.
La causa è anch’essa di livello, mi piace il gioco di dolce della patata che flirta con l’acido del lime e, dopo qualche istante, sopraggiunge la nota piccante dell’aji amarillo, in un andirivieni di sapori equilibrato.
Siete partiti bene, amici di Don Juanito, ma v’aspetto al varco: voglio la carnazza.
Altra breve sosta intervallata da discorsi esistenziali con Prippy (nome di fantasia) ed eccoci: agnello marinato con senape e basilico e maialino da latte disossato cotto a bassa temperatura.
Anche qui si porziona 50-50 e si parte dal maialino. Vabbè, stupendo: la cotenna sopra è una crosta adiposa croccante, l’interno è talmente morbido che pare una crema. Sublime nella sua semplicità e nella sua delicatezza ma di una bontà quasi commovente. E non sto sparando cazzate.
Il porcellino mi ha conquistato ma anche l’agnello fa la sua ovina figura. Succoso e al sangue al centro, ammorbidito dalla marinata che contribuisce a dare solo una punta di acidità, per il resto il filetto mantiene la sua identità senza la bruta impronta lanuginosa tipica della carne d’agnello. Anche su questo do una promozione a pieni voti.
C’è anche un contorno, una pata al plomo, patata cotta in forno in un foglio d’alluminio e ripiena di crema di formaggio – che in questo caso mi pare essere gorgonzola. Semplice, senza infamia e senza lode.
Io e Prippy (nome di fantasia) siamo già abbastanza soddisfatti ma dobbiamo seccare il vino, quindi ce la prendiamo comoda e la simpatica cameriera ci porta un bis di liquori argentini di cui però non ricordo il nome. Omaggio della casa.
E devo fare un appunto al servizio di sala: sorridenti e solerti, tutti i camerieri – ne ho contati 4 – stanno sempre allo scherzo ma non sono mai invadenti o pressanti e tengono d’occhio con attenzione l’andamento dei piatti e del vino nei calici.
Pensavamo di aver finito ma la gola c’ha colti di sorpresa al cospetto della carta dei dolci, così io e Prippy (nome di fantasia) ci concediamo un tres leches, una torta tipica dell’America Latina che si prepara con 3 tipi di latte. Ogni cucchiaino è morbido e succulento ed è la giusta conclusione della cena.
Soddisfatti e per niente appesantiti sebbene a pancia più che piena, io e Prippy (nome di fantasia) guadagnamo l’uscita non prima di una sosta di fronte alla cassa per saldare il conto: 100 € secchi, c’è anche una bottiglia d’acqua naturale di cui abbiamo ignorato l’esistenza per quasi tutta la serata. Be’, succede.
L’UST consiglia.
Stay tuna