Povero sgombro. Ostracizzato dallo strapotere del tonno nel Reame dello Scatolame, confinato ai margini esterni dello sguardo del consumatore che scruta perplesso la selva di offerte davanti allo scaffale, tra un Palmera e un Insuperabile e un Rio Mare e un As Do Mar e uno CheNonCostiUnCazzo.

Misero Sgombro. Rischa l’estinzione, almeno nei mari del nord Europa con Islanda e Isole Far Oer che s’azzannano con Norvegia e Scozia per la distribuzione delle quote di pesca in quelle acque. Qualcuno lo ha già battezzato il Panda del Mare. Po’rello. A me, per le striature del dorso, pare più un tigrotto pinnato e branchiuto. Ma questi sono problemi miei e della mia caciotta cranica.

Sventurato sgombro. Insignito del poco edificante status di succedaneo del tonno. Lo compri per disperazione o per sbaglio. Io per disperaglio. È la sottiletta quando manca la fontina DOP. Il panbauletto quando dribbli il panificio. Il soavello quando non hai il sofficino. Che fa schifo comunque.

Disadattato sgombro. Ma, coglione, ribellati! Autoincoronati come Sovrano della Scatoleria. Di’ al mondo intero che sei un pesce azzurro con tante proprietà e vitamine e proteine e colesterolo, ma quello buono. Che con i tuoi Omega3 possiamo farci le tabelline. Che non c’è tempo per le faide tra pinnuti dei mari, ma che il tonno, francamente, ti sta parecchio sulle branchie. Che le tue squame tigrate farebbero la felicità dei produttori di borsette, nonché l’accessorio perfetto per il cenone di Capodanno.

Pagherai a caro prezzo la tua timidezza, misero sgombro, soffrirai e ti rinchiuderai nel tuo consueto mutismo esistenziale. Mi spiace per te, sgombro, un giorno l’umanità intera ti rimpiangerà. È vero, non si è mai profeti in patria.

Io, però, che proverbiale Uomo Senza Tonno sono, dello sgombro detengo nello sportellino qualche riserva. Cibo d’emergenza in serate in cui la voglia di mettersi al fornello è pari a quella di correre con culo e cicì di fuori per le vie di Milano in piena notte di questi tempi. Che fa freddo. Meraviglioso, sei oh sgombro mio, quando ti estraggo tutto unto e gocciolante dalla scatoletta che spesso mi dilania un polpastrello, ti stramazzo sul piatto, ti spremo un limone addosso, ti cospargo di erba cipollina e porro affettato e ti lascio a insaporirti per una bella mezz’ora prima che le mie fauci si spalanchino per mandarti a miglior vita. Ovvero, a sguazzare tra i miei succhi gastrici. Sgombro mio, io t’apprezzo. Se mai dovessi morire, voglio risorgere come Uomo Con Lo Sgombro. Ma siccome il nome non sarebbe giocoso e giocondo come quello di cui mi bullo:

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Chiudo qui la mia ode allo sgombro. Allaccio il grembiule di sicurezza, mi liscio la barba con gesti a metà tra il Mago Merlino e il Rasputin e aziono il fornello proprio qui mentre favello.

La mia calotta cranica ha elaborato siffatto primo piatto, in cui los gombro non c’entra un cazzo, mezzo marino e mezzo mandarino, affresco posttonnesco di sapori e odori un po’ ihjasjbnskjfjdshsh. Rullino le macchine fotografiche, tudei ai cuc for iu òll: Spaghetti con capesante, bottarga di ricciola, scorza di mandarino, peperoncino, nepitella.

Spaghetti con capesante, bottarga di ricciola, scorza di mandarino, peperoncino, nepitella

C’è anche del peperoncino incendia-papille che non guasta mai.

Perché questo crogiolo di ingredienti? La capasanta ha quel sapore tenue tendente al dolciastro che ben si combina con i sentori agrumati della scorza di mandarino. Gli accenti silvestri della mente concorrono ad elevare la capasanta al rango di dea e non più di santa. La bottarga, oltre ad avere quel mattacchione nome che è un’imprecazione travestita da Bottarga La Miseria, mi aiuta a donare la giusta sapidità al piatto, bilanciando i toni morbidi degli altri ingredienti.

Cincischio come sempre, e tu, lettore mio o lettrice mia che tu sia e che stai lì a stropicciarti e picchiarti e calpestarti le meningi sperando che giunga l’illuminazione definitiva sugli ultimi regali da comprare, sarai già incazzato/a come una biscia fritta, ma non ti deluderò. Giurin giurello.

Un. Due. Tre. Si parte. Con la lista degli ingredienti.

Per un solo essere umano dotato di sensi, denti, lingua e apparato digerente:

– 90 g di spaghetti ruvidi di Gragnano
– 2 capesante
– una fettina di scorza di mandarino tritata (o grattugiata)
– nepitella
– peperoncino rosso fresco (a piacimento)
– bottarga di ricciola
– 3 cucchiai d’olio extra-vergine d’oliva
– uno spicchio d’aglio
– sale grosso da cucina

Prendo le capesante, facendo leva con un coltello estraggo dalle valve tutta la parte edibile, ovvero la noce (la parte biancastra) e il corallo (quella arancione). Le passo sotto l’acqua carezzandole leggermente per non rovinarle, le pongo su un tagliere e le riduco a tocchetti non troppo piccoli.

Mandarino: ricavo col coltello una piccola fetta dalla scorza seguendo la forma ovale del frutto. La trito.

Nepitella: ce l’ho già in foglie tritate.

Peperoncino: ne taglio un pezzo da un cornetto. Lo trito.

Ho tritato il tritabile.

In padella, uno spicchio d’aglio in camicia si scalda a fiamma bassa su un comodo letto oleoso. Quando sento che l’applausometro dello sfrigolio dell’olio inizia ad elevarsi, ta-dàn,  volontariamente e in completa autonomia, spintonandosi l’un l’altra nel suddetto olio, facendosi una gitarella tra i grassi saturi. Sfrigola di qua, sfrigola di là, bastano 2 minuti e le capesante sono pronte-onte-onte.

In pentola l’acqua fa le bolle. È pronta, già dotata di sale grosso, ad accogliere come un padre speranzoso riabbraccia il figliol prodigo, gli spaghetti di Gragnano, che hanno una tenuta in cottura meravigliosa.

La pasta è quasi cotta al punto giusto, è quasissimo al dente. La scolo non prima di aver separato 3 cucchiai dell’acqua di cottura e averli versati nella padella con le capesante. Dove ora schianto gli spaghetti e a fiamma alta, li salto per bene. Un paio di minuti in modo che gli spaghetti terminino la cottura e raggiungano la perfetta consistenza e tolgo dal fuoco.

Al meretricio di sapori s’aggregano la scorza di mandarino e la nepitella, entrambe trite. Entrambe attratte dal capesantismo, nuova corrente religiosa dove si muore dopo 33 giri di forchetta e si risorge con un digestivo ghiacciato. Mescolo per bene.

Col mio fido forchettone annodo gli spaghetti e li adagio sul piatto, cospargo col peperoncino e infine, qualche foglia di Sua Maestà La Bottarga di Ricciola: una coreografia da far invidia agli allestitori del Teatro Ariston di Sanremo, che dovrebbero farsi da parte non prima di avermi pagato fior di denari. Non 30, però, non mi piacciono i Giuda.

Il Disconsiglio: un amico me ne fece ascoltare qualche scampolo un paio di giorni fa. Tutto ciò che è jazzato si coniuga alla meraviglia con il buon cibo e il buon vino. Lei è strepitosa come una capasanta, quindi perché non far volteggiare le note di: Esperanza Spalding, Esperanza, annata 2008.