Quarter Over A Living Line partiva benissimo sin dalla copertina, ovvero questa:
Un viaggio negli inferi con la benedizione di Lustmord. Suoni abrasivi eruttati dalle discariche dell’industrial e una ferocia squisitamente metal senza mai sfiorare il genere. Passano due anni e i Raime, che sono due visionari producer londinesi, cambiano pelle ma non rivoluzionano la propria essenza.
Asciugati gli strati sonori, rimane lo scheletro di uno spettro che si veste di chitarre new wave sibilanti e ostinate. Un disco ricco di riff reiterati che chiamare riff non è neanche centrare il vocabolo ma il minimalismo chitarristico che scorre sui plumbei bassi e le ritmiche appena accennate non può essere chiamato altrimenti.
Non c’è un filo di voce, un torrente di sangue marcio scorre inzuppando le rive di una terra incontaminata. Il fascino dei Raime credo stia proprio nella loro capacità di creare immaginari surreali, a tratti fiabeschi violentandoli con un’aura sinistra e malvagia. E Tooth è un album brutale e inquietante. Come gli occhi di un rettile che ti osservano da dietro le felci.
Vi siete cagati addosso? Macché, cari follouà, che razza di domande vi pongo, lo so che siete dei Brave Heart che circolano a piede libero in questo emisfero boreale pieno di brutture ma non mi pare che quello australe se la passi tanto meglio. Insomma, la globosfera è un po’ una merda ma noi, che ci piace tanto gozzovigliare, non ci vogliamo pensare. O meglio, pensiamoci ma a panza piena che si riflette meglio.
Quest’oggi, miei supremi lettori, porgo all’attenzione della vostra retina una ricetta carnivora ché ogni tanto il registro deve variare dato che spadello solo vegetali e pesce.
Voglio rassicurare gli animalisti alla lettura: l’anatra che sto per tramutare in godereccia sinfonia palatale non l’ho uccisa io ma ci ha pensato qualcun’altro, il che, da consumatore-capitalista, mi solleva da ogni responsabilità morale sull’accaduto: ormai era morta, non potevo lasciare che la mangiassero i vermi.
Si scherza, eh, lo so che siete un po’ suscettibili sull’argomento. Non v’ho fatto sorridere? Eh raga, perdo colpi, mica posso essere sempre ridicolmente smagliante e poi ho il ghost writer in ferie, quello schiavetto bastardo dovrà pur mettersi le palline a mollo ogni tanto lontano da qui.
Senza di lui, orfano del suo estro creativo, qui da solo con i miei neuroni claudicanti mi tocca quindi rivelarvi i processi oscuri, le manovre occulte, le trame e sottotrame che mi hanno condotto a intavolare un Petto d’anatra conciato con pepe di Sechuan e foglie di mirto, confettura d’uva spina e fiorellini bellini che fanno scena.
Quali eccezionali materie prime ci vogliono per cotanto sfarzo gustativo? I seguenti ingredienti (dosi per una persona, poi moltiplicate per quanti siete):
– un petto d’anatra bello ciccio
– pepe di Sechuan in grandi da macinare
– foglie di mirto fresco
– sale fino
– un cucchiaino di confettura di uva spina
– fiori edibili
Credo sia la ricetta più semplice e breve che v’abbia mai raccontato. Perché basta massaggiare il petto d’anatra con voluttuosi gesti della mano, sinistra o destra non importa purché siano un po’ come quando toccate il culo a qualcuno che vi piace purché sia consenziente, eh, non fate i luridi nei luoghi affollati appuntellando col pistolino in discoteca che vi conosco a voi, follouà penemuniti, già c’avete l’antennino ricettivo. Non esagerate con le palmate sul petto d’anatra.
Sì, ma che cazzo ci dovete spalmare sopra? Domanda lecita. Io acchiappo dei grani di pepe di Sechuan e li pesto col mortaio. Poi li passo a un setaccio eliminando così i gusci dei grani che potrebbero spaccarmi un dente o forse anche due.
Prendo alcuni rametti di mirto, li privo delle foglie, che trito e che unisco al pepe di Sechuan. Qui con le dosi si va a piacimento: lo volete più pepato? Meno pepato? Regolatevi.
Fatta questa concia, posso accarezzare il petto, la minna d’anatra e palparla come un maniaco del parchetto. Ambo i lati ma soprattutto sulla pelle a cui successivamente pratico dei tagli diagonali su tutta la superficie, prima per un verso, poi per l’altro, ottenendo tanti rombi: questo serve a far penetrare il calore dentro la polpa. Cospargo il tutto con del sale fino.
Sul fornello brutalmente accesso piazzo la mia fida padella antiaderente, compagna di fritti e soffritti e salti carpiati di pasta e non appena la superficie è abbastanza rovente-per-chi-non-si-accontente, sfrisssssshhhhhhh, ci calo su il petto dalla parte della pelle. Lentamente questa parte, che è ciccionissima, rilascia il grasso che man mano sfrigola. In 5 minuti esatti la pelle è dorata e quasi croccante, giro il pezzo di carne affinché si cuocia anche dall’altra parte, qui bastano 2 minuti e mezzo.
Trasferisco il petto in forno per completare la cottura e quello che ottengo è testimoniato dalla seguente diapositiva, piuttosto porcigna.
Non mi resta che impiattare. Taglio il petto a fette e lo depongo su un piatto, scatatpulto fuori dal vasetto un po’ di confettura di uva spina che ha un agrodolce spiccato e ben si coniuga con la parte sapido-speziata della carne e la adagio accanto. Poi dei fiorellini qua e là, di quelli che si possono mangiare, chiedete al vostro fioraio di fiducia. O a una mucca.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: Laura Mvula, The Dreaming Room, annata 2016