Niente pippe filosofiche sulla scomparsa dai social, sul perché-e-il-percome di questa scelta. Non credo ci sia nulla di esistenziale, solo un’abile mossa comunicativa, una delle tante dei furbi Radiohead. E poi il contorno rischia di offuscare ciò per cui la band di Oxford è venuta al mondo, ovvero la musica.
E quella di A Moon Shaped Pool, se di primo acchito mi aveva, non dico disgustato, ma fatto stramazzare al suolo per la noia, pian piano è emersa in tutta la sua forza evocativa.
I cinque signorini hanno dato fondo ai propri archivi mettendo sul piatto poche canzoni scritte da “The King Of Limbs” a oggi e moltissime già eseguite negli scorsi anni, c’è persino True Love Waits che risale ai tempi di “The Bends”, qui avvolta in un’intima veste di pianoforte.
Non ci sono capolavori, eviscerate fino al midollo le undici tracce dell’album non hanno quegli slanci melodici che possono gareggiare coi grandi classici, non ci sono i ritornelli che ti mandano dritto in orbita, eppure c’è qualcosa di ammaliante e avvolgente. E lo so cos’è.
La confezione, gli arrangiamenti. C’è meno Thom Yorke solista – cosa buona e giusta – e più orchestralità alla Greenwood, anche quando non sono somministrati archi a profusione, a far d’ambiente sono gracili synth che creano tappeti ordinati e avviluppanti.
Insomma, star lì a sindacare se lo sciame d’archi di Burning Witch, spigolosa grazie alla tecnica col legno o l’onirico levitare di Daydreaming siano o meno convincenti mi pare superfluo. C’è tanta eleganza, ci sono suoni calibrati al millimetro e incastonati alla perfezione nel ricco panorama sonoro.
Greenwood mette al servizio delle canzoni tutto il bagaglio classico che ne ha formato la personalità, Ligeti e Bartòk su tutti (ma anche l’onnipresente ombra di Krzysztof Penderecki) e, tolti i due singoli, le cose migliori stiano dalle parti di Decks Dark, della cavalcata kraut di Ful Stop, nella bossa-prog di Identikit. Vi sfido a scrivere canzoni che funzionano senza avere guizzi da manuale. E non è pochezza di idee, semplicemente i Radiohead hanno superato da tempo il punto di non ritorno, la loro ricerca è diventata canone e non hanno più nulla da dimostrare sebbene tutti esigiamo qualcosa, nel bene e nel male.
Meno male che dovevo scrivere 4 righe. Mi dissi, oh, non dilungarti su sta storia del disco dei Redioéd ché all’uditorio nulla importa di ciò che ti passa per la calotta cranica.
Perdonatemi, è che quando la mattina consulto il dizionario devo assemblare più parole a casaccio possibili, altrimenti mi viene il prurito sotto al pianta del piede.
Eqquindi, che si mangia oggi? Eh, miei cari, ho compiuto uno sforzo sinaptico notevole per sagomare questa ricetta, che un tempo feci a una cena ma a cui ho voluto apportare opportune variazioni.
La base è rimasta immutata: cozze e guanciale. Mare e monti. Coste e promontori. Laghi e lande. Fiordi e tundre. Acquitrini e garage. Fiqo.
E se nella versione primigenia c’era lo zenzero, l’ho espulso senza pietà assoldando dei sontuosi funghi cardoncelli e, udite udite, l’erba limoncina, perché un elemento rinfrescante in tutto sto gran casino di sapori glielo dovrò pur infilare.
Ebbene, fidi lettori, ora vi svelo come si edifica questa Calamarata con cozze, funghi cardoncelli, guanciale croccante ed erba limoncina.
Ingredienti per 4 energumeni vogliosi d’assaggiare:
– 400 g di calamarata (che in buona sostanza sono dei mezzi paccheri che ricordano la forma degli anelli dei calamari: ma usate la pasta che cazzo vi pare)
– 500 g di cozze fresche
– 300 g di funghi cardoncelli
– 20 g di guanciale
– 6 foglie d’erba limoncina
– mezza cipolla rossa di Tropea
– 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva
– sale
– pepe (se volete, io non l’ho messo)
Il primo atto di questa surreale commedia gastronomica è la pulizia delle cozze. Aiutandomi con un coltello, faccio leggermente leva sulla cesura delle due valve e tiro via il bisso, ovvero quel filo lofio che serve a questi fottuti invertebrati di stare ancorati agli scogli. Lo scippo e poi passo una spugna abrasiva sul guscio per togliere le merdine annidate. Sciacquo per bene.
I mitili ignoti finiscono in men che non si dica dritti in pentola, a secco, fiamma vivace con un coperchio sopra, in 4 minuti sono già tutti schiusi. Filtro il liquido che hanno spurgato con un setaccio conservando quello pulito, che tengo da parte in una ciotola.
Rapido e indolore: affetto il guanciale a listarelle, lo adagio in una padella a freddo senza grassi aggiunti e lo rosolo dolcemente. Il porco rilascia l’untuosa ciccia che lo autofrigge e io sono felice e temo di essere sul punto di dar vita a un’istantanea vasodilatazione ma mi contengo. Tolgo dal fuoco e lascio raffreddare il guanciale, che così diventa Croccante. Bello porco.
I funghi cardoncelli, ma quanto son belli? Co’sta cappella lucida che io affetto senza remore, ovviamente dopo aver lavato tutto l’ambaradàn, gambo compreso.
Trito mezza cipolla rossa di Tropea, originale che glielo dissi all’ortolano che volevo quella pura e non meticciate del cazzo, la rosolo in padella con 3 cucchiai d’olio, poi aggiungo i funghi cardoncelli, che necessitano di soli 8 minuti complessivi di cottura per essere pronti.
Così, mentre la calamarata cuoce in acqua con pochissssssimo sale grosso, tempo di cottura 14 minuti, 2 minuti prima che i funghi siano cotti a puntino, aggiungo le cozze – che, non v’ho detto, ho estratto dalle valve, alcune le ho lasciate intere per bullarmi poi con l’impiattamento – e il liquido filtrato. Faccio restringere e spengo la fiamma e non aggiungo sale perché le cozze son sapide, poi devo infilare pure il guanciale, a meno che non vogliate farvi salire la pressione a 300, fossi in voi eviterei.
Catapulto la pasta in padella con cozze e funghi, la salto a fiamma vivace, l’amido manteca quest’intrigante storia mitilo-micotica e sono pronto per sgraffignare tutto. Però prima depongo sul piatto calamarata e cozze e cardoncelli, metto su un po’ di guanciale – poco, altrimenti soverchia il resto – e un trito di erba limoncina fatto sul momento. E che ve lo dico a fare, mi sto imbarzottendo, un brivido d’eccitazione mi pervade da sud a nord e, boh ragazzi, io non ce la faccio, sono un lascivo maledetto, mi abbandono ai piaceri della carne. E dei mitili. Minchia che sono buoni i mitili.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: ci stanno molti sapori, alcuni contigui, altri in contrasto. Il sapore di mare però è immutato grazie al sughetto delle cozze e allora mi dico, qui ci sta bene un disco che richiama a chiare lettere i fondali, non solo nel nome ma nei suoni liquidi e giocosi. Sì, io ci metto un bel Pram, Sargasso Sea, annata 1995