Sorry Mama, corso di Porta Romana 79, Milano
Sappiate che nessun piatto è ormai al sicuro dalla gourmettizzazione o streetfood-mania. Prima l’invasione dell’hamburger in milioni di declinazioni più o meno carnivore, sono poi irrotti sulla scena timidi tentativi di nobilitare perfino il kebab, ora è appena atterrata la pizza-che-costa-un-rene. Attendo con ansia che qualcuno estragga dal cilindro la trippa-da-passeggio per insozzarmi di sugo il cappotto con sommo gaudio.
Ebbene, a Milano sono arrivate le lasagne. Già la vedo la sfoglina che è in voi alzare il sopracciglio, spolverarsi la farina di dosso e agitare il mattarello a mo’ di manganello. Calma. Ho perlustrato la situazione per voi, fare il fudbloggah ha anche una missione sociale.
Entro quindi da Sorry Mama carico come una faina ma con lo stomaco abbastanza vuoto per farci star dentro tutto. C’è Luca Arcoini, CEO della società, che con favella fluente illustra il progetto ai colleghi giornalisti arrivati prima di me.
La cucina è a vista al di là di una porta di ferro sotto un tetto a spiovente che ricorda l’ingresso di una casa colonica. É un locale mordi-e-fuggi con due tavoli alti con sgabelli da un lato e un tavolo-mensola che percorre la parete opposta.
L’ambiente ha quella sobrietà-chic che per adesso furoreggia, sparsi sulle pareti della microscopica sala ci sono mattarelli, setacci, scolapasta.
Arcoini snocciola un po’ di dettagli: le sfoglie sono preparate con ingredienti selezionati e farine particolari (semola, saraceno, farro, kamut, quinoa, tritordeum) prodotte dal Molino Dallagiovanna. Si mira a rispettare la tradizione e gli impasti sono leggeri con un dosaggio accurato delle uova. Sorry Mama segue la tendenza all’alleggerimento dei condimenti, infatti la besciamella è senza burro. E qui apro una parentesi graffa: ok, vogliamo farla diversamente sta besciamella? Nulla in contrario, ma non tiriamo in mezzo il rispetto della tradizione perché la Tradizione il burro non lo richiede, lo esige coattivamente. Chiusa parentesi graffa.
É tutto brandizzato e posate, bicchieri e vaschette sono compostabili ricavate da polimeri di riso (posate), amido di mais (bicchieri) e cellulosa di canna da zucchero (vaschette), con costi sette volte superiori alla plastica ordinaria. La carne arriva dalla Brianza, è di buona qualità ma non da alta ristorazione per una mera questione di posizionamento sul mercato.
Il ragù di carne sta sul fuoco per 2 ore e mezzo circa e la pasta, che viene stesa con un macchinario, essendo fresca non viene sbollentata prima di finire in forno coi condimenti.
In diffusione c’è musica rigorosamente italiana, non sia mai che un americano entra, sente i Kiss, soffoca i suoi istinti tricolore e fugge via disilluso e disperato.
Capisco subito che qui la forma conta molto, infatti l’eloquio di Arcoini ribolle di green, light, street food e casual dining (prego?), ma qui vogliamo la sostanza: quando si mangia? Adesso.
Arriva il primo tris, ogni varietà di lasagna ha un nome femminile, proprio come le mamme e le nonne che la domenica si alza(va)no all’alba per avere il pasticcio pronto a pranzo.
Emilia è la classica al ragù che è saporito, un po’ meno la besciamella che risente dell’assenza del burro. La sfoglia è agli spinaci.
Adriana è con carciofi, ricotta e noci, buona ma le manca il guizzo carpiato: il carciofo ha di per sé un sapore delicato smorzato dalla ricotta, ci vorrebbe un formaggio che lo sostenga meglio senza strangolarlo. Toh, punterei su un Asiago mezzano che ha una nota amarognola che ben si sposa con la dolcezza del carciofo. Va però detto che il risultato qui non è affatto male.
Scamorza e pesto di pistacchio fanno invece centro con Valeria. La crosta è croccante e la scamorza regge bene il pesto. C’è quell’unto al punto giusto che mi strappa la promozione.
Mentre un collega, che ha spazzolato la sua razione con la voracità di un formichiere, tempesta di domande Arcoini, arriva il secondo giro d’assaggi.
Con Rosy vanno in scena broccolo e salsiccia di Norcia, con quest’ultima che conferisce sapidità all’insieme che però è un po’ asciuttino. Nella sfoglia all’uovo c’è la farina di tritordeum.
Un quadrato di sfoglia al nero di seppia in versione cupcake mi si para davanti. É Sara con gambero piccante al curry e besciamella al latte di cocco. Abbinamento suggestivo e ben bilanciato, col pizzicore tenuto a bada dal retrogusto fresco del cocco, che si sente seppur vagamente.
Franca guarda alla Liguria con un delicatissimo pesto di basilico e fagiolini così croccanti da destare qualche sospetto sulla cottura: sì, sono un po’ indietro, ma l’insieme è gradevole sebbene l’abbinamento non schiuda chissà quali nuovi orizzonti palatali.
Mentre dalla regia mi segnalano che uno dei presenti sta stenografando, coraggioso atto d’altri tempi, sopraggiunge la terza razione di assaggi.
Antonella è la lasagna per il target vegano ma è invero dimenticabilissima. Il ragù di tempeh ha un sapore cartonato e pecca di sale, la besciamella è un ectoplasma gustativo. Per me è No.
Così come un No senza appello lo lancio a Valentina creata appositamente per San Valentino, un quadratino di sfoglia all’uovo anch’essa in versione cupcake con fragola e gorgonzola. Ok, un bocconcino come questo può andar bene, ma a una porzione normale non ci penso neanche: sebbene l’agro della fragola contrasti il gorgonzola, la componente dolciastra del frutto è dittatoriale e soverchia l’erborinato.
Elsa potrebbe emozionarmi ma è condizionata da un tris di verdure dolci (piselli, zucchine, carote) che le olive non riescono ad arginare perché poco saporite. Primavera precoce.
Questo giro si metterebbe male se a salvare capre e cavoli non arrivasse Livia, lasagna-pizzocchero di grano saraceno con verza, patate e formaggio Casera, con quest’ultimo che rialza le quotazioni con la sua sfumatura che ricorda le noci.
Uah, nel mio pancione a forma di baule dei pirati lo spazio libero è ormai esiguo, ma non rinuncerò di certo a testare i dolci di Sorry Mama. Zan zan.
Ecco quindi due tipi di salame al cioccolato, uno tradizionale e uno vegano le cui differenze sono minime, entrambi buoni ma senza esaltazioni.
Il pezzo forte è il tiramisù al pistacchio, invero buonissimo e delicato nonostante domini la nota grassa del mascarpone.
Bevo anche una birra alla quinoa, che non rivela alcuna grossa differenza aromatica con una normale birra da largo consumo.
La cena è finita e vado in pace mentre le sinapsi turbinano in un monologo interiore che fa più o meno così: apprezzo lo sforzo e l’intuizione ma non credo si possa proporre la lasagna in veste street food per due evidenti motivi.
La scomodità di mangiare “per strada”, magari passeggiando, 5-6 piani di sfoglia con condimenti che non sono del tutto solidi a costante rischio-collasso (a meno che il tutto non sia più compatto e quindi più secco) e il fatto che il Cibo Di Strada sia un’altra cosa. Di questi tempi si abusa troppo dell’etichetta e comprendo che il “marketing linguistico” sia un buon richiamo per la clientela essendo adesso all’apice del trend, ma lo street food si chiama così proprio perché nasce e si prepara(va) in camionette e furgoncini per strada. La lasagna è il piatto casalingo della domenica per eccellenza, mi pare complicato riuscire a sradicare questo stereotipo culturale, almeno in Italia. É una questione di percezione da parte del cliente, anche del più open-minded.
Inoltre, il prezzo medio a porzione è di 6,50-7 € (sono 300 g l’una), sia cotte che crude, un po’ troppo per un cibo dalle aspirazioni “easy”.
Insomma, sebbene Sorry Mama parta da una buona qualità di base ma con qualcosa da calibrare meglio su alcuni abbinamenti, prima di chiamare mia madre in Trinacria e dirle Ma’, a Milano ho trovato una lasagna più buona della tua e non è quella che faccio io ce ne vorrà ancora un po’.
Resto in attesa, fiducioso.
Stay tuna