Credo di non proferir bestemmia asserendo che il nuovo album dei Low è un serissimo candidato alla palma di disco dell’anno. Fino a qualche settimana l’esordio degli Algiers spadroneggiava tra le mie preferenze, ma la coppia Sparhawk-Parker continua a spargere poesia sonora.
Ones & Sixes ha il consueto tono dimesso ed elegiaco di ogni pubblicazione targata Low, ma la svolta elettronica, sebbene non invadente e non rivoluzionaria, è perfettamente calibrata. Dodici brani fragili come il cristallo, pieni di malinconia che si muovono in un panorama sonoro cangiante e rarefatto, ascoltato tutto d’un fiato l’album prende alle viscere. Il solo brano d’apertura Gentle già basta per far drizzare gli antennini, ma renderlo l’emblema dell’album sarebbe fare un torto al resto della tracklist che ha una potenza emotiva superlativa (ci metto No Comprende, Congregation, The Innocents, Into You).
Lo stesso effetto me lo fece lo scorso anno “Everyday Robots” di Damon Albarn che continua a emozionarmi ogni volta che lo metto su.
Bene, accantono il momento di cultural-struggente per riappropriarmi del mio costumino da stronzocanemaledetto e descriverti la ricetta di questo nuovo appuntamento culinario. Di sti tempi sono così impegnato e mi stanno capitando così tante sfighe ravvicinate che faccio un po’ fatica a secernere ricette ultrarivoluzionarie, quindi oggi mi mantengo sul semplice-andante, senza scoregge pirotecniche e cotture assurde, cose per altro mai fatte.
Vabbè, che faccio, parlo di sta ricetta? Sì.
Siccome ho un problema molto pesante coi formaggi, nel senso che tendo ad appesantire il mio peso forma assumendone quantità ben oltre la dose giornaliera consigliata dai migliori allevatori, preparo un risotto con uno dei miei puzzadipiedi preferiti: il roquefort.
Che poi è un formaggio particolare. Si fa con latte ovino, a metà stagionatura si inoculano delle muffe chiamate Penicillium roqueforti e poi le forme passano in grotte tra i Pirenei intorno a Roquefort, che è la cittadina da cui prende il nome il formaggio. Sono quindi le speciali e specifiche condizioni climatiche che ne determinano il sapore acceso e che non può essere riprodotto altrove. Infatti il Roquefort si produce solo a Roquefort.
Che c’entra l’alter ego transalpino del nostro gorgonzola? C’entra che c’ho fatto un risotto e ho messo pure l’uva. Cosa uso per prepararlo? Questa ingredientanza:
– 100 g di riso Vialone Nano
– 40 g di Roquefort-meglio-abbondare-anche-60-se-necessario
– Qualche acino di uva nera
– 2 carote
– Una cipolla bianca
– Un gambo di sedano
– Burro chiarificato
– Mezzo bicchiere di vino bianco
– Sale
– Pepe
Classico procedimento del risotto. In un litro d’acqua bollente scaglio sedano, carota e cipolla insultandoli, perché mi piace dire le parolacce ai vegetali. Tanto non rispondono, anzi, bollono lì dentro per mezz’ora mentre io mi faccio amabilmente i cazzi miei. Aggiusto di sale e spengo la fiamma.
Rosolo un trito di cipolla in una noce di burro chiarificato, tosto il riso e lo sfumo col vino bianco. Recito alcuni passi del rosario, non so perché. A caso. Nel frattempo aggiungo mestolate di brodo che creano bolle su bolle e tanta simpatia nella mia pentola di rame.
Passano 15 minuti e aggiungo gli acini di uva tagliati a metà e a cui ho asportato i semi con un’operazione tanto chirurgica che mi sono fatto passare il bisturi dalla statuetta del satiro che ho sul davanzale del camino.
Dopo 2 minuti il riso è cotto a puntino. Aggiungi quindi il roquefort per la mantecatura e aggiusto di sale, pochissimo che già il tumazzo è bello sapido. Basta, un colpetto di pepe nero e posso parcheggiare le chiappe sulla sedia, forchetta in mano e aggredisco la creatura.
– Il Disconsiglio: No, quello dei Low l’ho già menzionato quindi ne sceglierò un altro che ben si sposi col tocco caprino di questo risotto, che poi il roquefort mica si sente tanto. Musica agreste, il perché non lo so, ma ci vedo bene un Fleet Foxes, Fleet Foxes, annata 2008