Questa volta non ho nessuna dritta cultural-musical-librofila da concederti, se non invitarti a sturarti le orecchie e lasciar entrare, sempre nelle orecchie, il nuovo dischetto dei Faith No More che, lo dico senza giri di parole, apre le natiche a molti esemplari del regno animale e anche vegetale. Sentirli così in forma dopo tutto questo tempo conferma l’assioma che sentenzia che il genere umano è popolato da una fracca di sacchi di merda ma c’è qualcuno che tanto sacco di merda non è. Bello e saporito, anche un po’ speziato, Sol Invictus è consigliato dalla casa. Poi sto leggendo un romanzo da urlo su cui mi concederò dissertazioni diffuse una volta finito. Per ora è presto.
Dato che non ho una segabanana da dire, posso passare direttamente all’azione, alla trasformazione di materia prima attentamente selezionata dalla mia fedelissima coppia retina-cornea coadiuvata dall’altrettanto leale naso, perché io quando faccio la spesa, annuso. Evvaffanculo.
Di cosa parlo oggi? Di un piatto che potevo chiamare in altri settecento modi, ma siccome c’è per adesso la moda del click baiting, soprattutto da parte di molte testate online che scrivono titoli da Pena Capitale pur di far accedere ai loro scadenti siti di disinformazione (non controinformazione, bensì il senso letterale del termine) o rendere virali i link sui social, insomma, questi se la farebbero parcheggiare nell’ano pur di fare accessi. Al sito e all’ano. Io accessi all’ano, al momento, non ne richiedo, ma quelli al blog non mi fanno schifo, quindi ho deciso di usare una parola-chiave per trarre in inganno te che stai leggendo.
Ma, in verità, in verità ti dico: alla fine non sono distante dalla realtà, il procedimento è più o meno lo stesso della carbonara. Non c’è l’uovo, poi per il resto è tale e quale. Ok, c’è anche il porro e nella ricetta originale non esiste sentore di cipollame e affini. Maccheccazzomenefotte, io sfornello e coloro fuori dai bordi.
La cosa più complessa di tutto l’ambaradàn è cuocere contemporaneamente tutto su fornelli diversi per avere un piatto perfettamente caldo e bilanciato. Dopodiché, è tutto molto semplice se hai a disposizione le seguenti cosucce (dosi per una persona):
– 90 g di spaghetti Rummo
– 100 g di fave fresche
– 30 g di porro fresco
– 40 g di guanciale
– 10 g di pecorino romano DOP
– sale
– pepe nero
Afferro le fave e le pulisco liberando i semi dal baccello. Sciacquatina e via a bollire per 15 minuti. Terminata la cottura e una volta scolate, le passo al minipimer ottenendo una mezza purea, lasciando però alcune fave intere. Tengo questa sorta di crema piuttosto liquida aggiungendo un po’ d’acqua della lessatura, quando la unirò alla pasta non si assorbirà del tutto.
Taglio il porro a rondelle spesse mezzo centimetro, verso un po’ d’acqua calda in una padella, porto a ebollizione e scatafalco il suddetto porro per stufarlo. Sistemo di sale.
Taglio il guanciale a fette sottile, poi a listarelle, depongo in una padella fredda, avvio la fiamma e il calore che progressivamente si dipana permette al porcellozzo di rilasciare tutto il grasso. Se l’avessi messo con la padella incandescente, avrei ottenuto la sigillatura della parte esterna e tutto il grasso sarebbe rimasto intrappolato dentro, mentre a me serve rosolarlo per bene nel suo generoso adipe.
Lesso gli spaghetti in acqua leggermente salata, terminata la cottura Alla Gengiva, che precede quella Al Dente che ottengo tra qualche istante, la estraggo con un forchettone e la pianto nella padella col guanciale rosolato e ultra-unto. Salto in padella.
Rifinita la cottura, verso pasta e guanciale e olio nelle fave frullate a cui ho aggiunto il porro stufato, una bella macinata di pepe e una godereccia pioggia di pecorino romano grattugiato, incorporo per bene, impiatto, mi siedo a tavola, mango, godo e rutto.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: dato che ho aperto con Patton, che ha vissuto in Italia per un bel po’ di anni, ci vedo benissimo un Mike Patton, Mondocane, annata 2010