Io il tizio che ha vinto il nobel per la letteratura non lo conosco neanche di striscio e di Modiano ricordo solo le carte da gioco. Misteri dell’ignoranza, ma non ho voglia di recuperare le mie mancanze, non lo leggerò. Dirai, chemmenefotte. Hai ragione, chettenefotte. Ma non voglio dissertare amabilmente delle mie non-letture, quanto, rapidamente, di uno scrittore che da quattro-cinque anni è sempre menzionato tra i papabili e non se lo cagano mai quegli svedesacci tutti Ikea, renne e Io sono Ibra. Philip Roth: errore! Murakami: arbitro, rigore! Neanche lui. E quindi chi è? Lui: Ngugi Wa Thiong’o. Chi? ‘Sto qui. Uno che s”è fatto un anno di prigione nel nativo Kenya per aver deciso di scrivere in gikuyu anziché in inglese, lingua imposta prima dai coloni, poi dal consueto governo-fantoccio voluto dai britannici. Uno che ha proposto di spostare i centro della cultura mondiale, non per creare una nuova dittatura culturale, bensì per concedere alle altre identità di affermarsi senza essere sopraffatte da un pensiero unico, da una lingua unica, da uno stile di vita uguale per tutti e prodotto in serie. É quello che se il mio ex docente di Letterature Comparate all’università non lo avesse incluso in una dispensa-antologia, probabilmente anche io mi chiederei chi cazzo è sto negro e cosa cazzo me ne fotte a me dell’identità culturale dei kenyoti, tanto stanno a forse 4000 km di distanza dal mio nido casalingo, dal mio lavoro che mi consente di pagarmi il corso di yoga, dallo sfascio del week end in cui dissanguo le mie finanze scialacquo tutti i soldi risparmiati durante la settimana. E invece, ricordo chi è e penso che ne approfondirò la conoscenza acquistando un suo libro tradotto in italiano, che io il gikuyu non lo capisco neanche per un cazzo.
Ma non è che voglio fare il ganzo spacciandoti uno scrittore che non conosci e peccare di superbia come quelli che parlano ai neofiti di quel regista lettone che ha fatto quell’impressionante cortometraggio sulle perverse posizioni sessuali degli scoiattoli della taiga russa durante lunghe sessioni di accoppiamento e ti chiedono con aria stizzita e disgustata come mai tu non lo conosca, be’ sai, forse ogni tanto scopo come uno scoiattolo e non ci penso al regista lettone che conosci solo tu e i tuoi compagni di merende zoofilo-guardoni. No, Wa Thiong’o, oltre che scrittore attuale e che reputo vada approfondito, è nato 2 anni prima di mia nonna materna. E mia nonna materna è venuta a mancare 2 anni fa. Se sento la sua mancanza? Sì. Mi manca il suo caratteristico odore, la sua voce corrosa dal fumo, i suoi ricordarmi puntualmente quella volta che, da marmocchio teppista, mangiai di nascosto le sue sigarette o trascinai a terra una lastra di marmo di casa sua. Mi è mancata la sua presenza quando misi piede per la prima volta a casa di mio nonno poco dopo la sua scomparsa. Avvertii l’irreparabile senso di vuoto e di assenza che una persona “ingombrante” genera quando non fa più parte fisicamente della tua esistenza. Sottolineo, fisicamente. Perché io la mia nonna mica me la dimentico. Eh no, e dato che non me la dimentico, ho provato uno dei piatti che spesso cucinava e che, personalmente, ho sempre adorato. E siccome la Cucina della Nonna in senso culturalmente più ampio è quello che a) è senza la merdaccia industriale che trangugiamo ogni fottuto giorno e b) è votata al risparmio e al contenimento dei costi, oggi ti narro come ho cucinato le Polpette di carne e riso in umido con verdure
Ingredienteria:
– 200 g carne macinata
– riso originario
– mezza zucchina
– un uovo
– un pugno di pangrattato
– una bietola
– una carota
– mezza cipolla
– un pomodoro
– salvia secca
– rosmarino secco
– un cucchiaio d’olio extra vergine
– un cucchiaio di parmigiano grattugiato
– acqua
Per prima cosa, acchiappo un pugnetto di riso, l’originario va benissimo, e lo immergo in una tazzina d’acqua fredda per un’ora in modo che la parte esterna si ammorbidisca e inizi a rilasciare amido, che mi serve per legare il riso alla carne quando, tra poco, farò tante palle commestibili. Si cuoce dopo, insieme alla carne, altrimenti diventa una merda di poltiglia che rifiuterebbero anche i sorci giganti di Parco Sempione.
Se per fare un tavolo ci vuole il legno, per far rosolare le verdure in una casseruola si devono prima lavare, sbucciare quelle che lo richiedono e spingerle senza alcuna pietà nel fondo della pentola, dove un cucchiaio di olio extravergine d’oliva ha già raggiunto la temperatura consona all’operazione. Le verdurine sono così liete di sudare ed espellere tutta l’acqua che hanno in corpo che lo fanno senza che io le frusti o le vilipenda con frasi del tipo “Suda carota dimmerda!”, “Gronda, bietolina del cazzo!”, “Traspira, zucchina meretrice!”.
Mentre il festival sudoriparo si consuma nella casseruola, in un’altra pentola ricolma d’acqua prendono vita bollori. Tutto questo bollore e vapore lo verso poi nella casseruola, sulle verdure, in modo che si possa generare un buon brodo vegetale privo di merdosi e cancerogeni dadi che te li devi mangiare solo se non hai rispetto di te stesso e hai deciso di suicidarti domani mattina. Preferibilmente non in metro, che crei disagi alla collettività.
Il riso è pronto per contrarre matrimonio e sifilide con tutti gli ingredienti delle polpette. In una ciotola verso: carne macinata di bovino, riso, un ovetto, un po’ di pangrattato (non avevo il pane in cassetta e non ho il latte, quindi non sono ammesse proteste), un po’ di parmigiano grattugiato, rosmarino e salvia secchi prontamente sbriciolati dalle mie manine, sale, una macinata di pepe. Basta, via con le palle!
Fatte le palle, si tirano con gesto da cestista dell’NBA nella pentola che fa glu glu glu per i bollori della brodaglia. Brodaglia che deve coprire per intero tutte le palle in modo che la cottura sia uniforme. Le palle si lasciano in ammollo nella brodaglia per 12-13 minuti, dipende dal tempo di cottura del riso. Sì, qui comanda il riso, non la carne, che tanto resterà ugualmente morbida anche se resta in ammollo 2 minuti in più perché, non essendo rosolate aka sigillate all’esterno, il vapore penetra all’interno mantenendola soffice.
Trascorso il tempo richiesto, devo solo aggiustare di sale il brodo e ingollarmele senza alcuna pietà.
– Il Disconsiglio: ci vuole dell’autunno, ci vuole dell’inverno, come uno di quei vinazzi che t’impastano la bocca ma che ti riscaldano con l’essenza della terra che li ha generati. Roba simpaticamente primordiale, un Bukka White, una raccolta qualsiasi va benissimo (anche se Blues Essentials è un ottimo compendio)