Ho sempre osservato con diffidenza sugli scaffali delle librerie i volumi di Stephen King. Convinto d’avere a che fare con uno scrittore dozzinale che la gente compra più al supermercato che in libreria, ho dribblato con disinvolto disinteresse. Quei libracci costruiti ad hoc per mettere solo un po’ di paura e nulla più in chi legge, che tanto un libro d’intrattenimento val tanto quanto un’insulsa trasmissione in tv. Insomma, tutto st’onanismo mentale qui.
Però, volli dare una seconda chance allo Stefano. Nel 2005 lessi Shining, in alcuni punti ebbi quella sgradevole sensazione della pelle del volto che si tira per l’inquietudine. Un lifting all’angoscia. Ma forse ero troppo preso dall’aspetto orrorifico della storia e mi sono perso I Significati. Negli ultimi 10 giorni ho avuto a che fare con Misery, la storia da cui è stato tratto il famoso film che valse all’attrice Kathy Bates l’oscar come miglior attrice. Addentratomi nella vicenda, ogni preconcetto s’è dissolto. Andando oltre l’aspetto inquietante della vicenda, invero più un thriller psicologico che un horror, emergono chiari i diversi livelli di significato analizzati ed espressi da King: il fanatismo delirante; il morboso rapporto che si instaura tra il lettore e il personaggio fittizio, un rapporto tanto tanto emotivo da generare nell’individuo in carne e ossa una delusione e una sofferenza pari quasi a un lutto quando il protagonista esce di scena; le abitudini che si celano dietro la stesura di un romanzo; il ruolo dello scrittore, il burattinaio di una storia che ha poteri quasi paragonabili a Dio che ha inoltre la responsabilità di amministrare i sentimenti del lettore per interposta persona.
Insomma, tanta carne al fuoco in una storia perfetta e fluida che ti tiene incollato alla pagina. Un piccolo saggio sulla scrittura travestito da horror novel. Agli scettici dico: leggetelo. Un po’ come Valentina Nappi diceva alle fighe di legno: datela!
L’angolo dei cazzi miei letterari è finito, posso mettermi al fornello che oggi c’ho in serbo la ricetta fighetta. Di mia spontanea creazione.
La delicatezza al servizio delle papille gustative, ma una delicatezza a forchettate limitate. Il condimento che accompagna sta pasta, lo dico sin d’ora, si fa
É quindi un piatto perfetto per fare i radicalchic che mettono quattro fusilli nel piatto, ma non per menate aristicratiche, bensì perché più di quelli non riesci a mangiare. Bando alle ciance, non è una ricetta per chi vuole alzarsi da tavola con evidenti difficoltà respiratorie e limitate capacità deambulatorie.
Ma sta ricetta qual è? É: paccheri con ragù di orata al the verde, pinoli tostati e scorza d’arancia.
Lista della spesa per 2 individui:
– 10 paccheri-di-numero
– un’orata da 350 g
– 100 g di pinoli
– 5 bustine di the verde
– scorza d’arancia
– sale
Da dove parto? Dal pinolo. In una teglia spargo 100 grammi di pinoli, ovvero un pacchetto che costa quasi 5 euro, cristobbenedetto, e tosto in forno a 120 gradi. Sul piano sotto la teglia pongo due cocotte con dell’acqua: il vapore acqueo evita l’effetto-frittura dell’olio che i pinoli inevitabilmente rilasciano e non lo rovinano.
Terminata la tostatura, con mortaio, pestello e occhiali, faccio una sorta di pesto di pinoli aggiungendo man mano un po’ d’olio di arachide – non d’oliva che è fin troppo invadente e degraderebbe il sapore dei pinoli. Un po’ di sale e fine della chiacchiera.
Accarezzo questa bella orata. Esanime. Eviscerata. Lucente. Fresca.
La sfiletto, la delisco, la spello e taglio a cubetti la polpa.
In una pentola con acqua bollente, scaravento 5 filtri di the verde e faccio andare per 4-5 minuti.
Dopodiché, in un cestello per la cottura al vapore, metto la polpa di orata e la cuocio al vapore, appunto.
Il the verde è delicato e non rovina il sapore del pesce, ne da solo una leggerissimissimissima venatura amara. Ma ultrastramegaleggerissimissima. E, attenzione alla cottura, il pesce non deve sfaldarsi. 4 minuti esatti con un coperchio sono più che sufficienti. Tolgo dalla pentola, aggiungo un po’ di sale.
Mentre il pesce va, ricavo due fettine di scorza d’arancia e le lascio in infusione in acqua calda per un minuto in modo da eliminare il retrogusto amaro tipico dell’agrume. Estraggo dall’acqua, asciugo e taglio a brunoise.
Sono pronto per il pacchero. E lo cuocio con una tecnica che, una volta provata, non si torna più indietro. Richiede un paio di minuti più del solito ma ne vale assolutamente la pena. Cuocio i paccheri per infusione.
COTTURA PER INFUSIONE: porto l’acqua a ebollizione già salata con una manciata di sale grosso. Butto la pasta, faccio andare per un paio di minuti e poi, ecco la parte interessante: spengo la fiamma
e metto la pentola su una superficie fredda e senza coperchio.
La temperatura dell’acqua va man mano diminuendo e l’assenza di calore costante non aggredisce la pasta, che così non si sbollenta ma si “re-idrata”, trattiene l’amido e mantiene una maggiore consistenza. É un metodo di cottura ottimo quando la pasta va saltata in padella con un sugo, l’amido trattenuto durante l’infusione verrà in parte rilasciato nel condimento, legandolo.
Visto che figata?
Ho già unito l’orata ai pinoli e alla scorza di arancia, non mi resta che unire il pacchero solitario, una volta scolato, al ragù e servirlo.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: piatto leggiadro richiede disco a peso piuma. Non toccano neanche a terra col loro post-rock che ammicca al dream-pop ma quelle strutture ben calibrate come un buon vino friulano: The Gentleman Losers, Dustland, annata 2009.