E dire che me lo ero appuntato. Di certo qualche fottuto spiffero ha fatto volare via l’appunto dalla mia zucca. Brutto perdere i ricordi in questo modo. L’avevo appuntato ma poi l’ho dimenticato. Cosa? Questo. Procedo per gradini e gradienti. È il 30 aprile ed è anche sera. Raggiungo due loschi figuri che poi tanto loschi non sono, anzi non lo sono affatto. Fabrizio e Michele, che menzionati così sembrano un duo di cabaret. Ciccio e Franco. Sandra e Raimondo. Topo e Gigio. Pippo e Baudo. Ste robe così. Non fanno cabaret i due Baldi giovani e non sono solo miei compari di birra-che-sembra-innocua-ma-che-poi-ti-spezza-in-sette-pezzi-e-qualche-briciola, ma col sottoscritto ci strimpellano giusto per strangolare il tempo. Ma vabbè, a te che te ne frega di sta cosa qui? Insomma, sto a girovagare per i Navigli con i due amichetti quando entrambi all’unisono, così, come se fosse la notizia più ovvia dell’Età Contemporanea, estraggono dal cilindro uno spensierato ma potenzialmente letale “oh, domani ci stanno i Dillinger Escape Plan al Magnolia. A 10 euro”.
La massa di parole che rigurgito nell’immediato è una sana espressione di vilipendio verso il primo santo che mi ritrovo a portata di lingua. Come ho fatto a dimenticarlo? domando al mio segretario immaginario, il Demente Carlo. Lo avevamo bellamente scordato, sia io che lui, il segretario immaginario e menomale che i miei amici sono come dei post-it appiccicati sul frigorifero che ti promemorizzano gli eventi importanti. Grazie amici. Grazie. Grazie.
L’età. 28 anni e sono già rincoglionito come un pero. Santa Vergine delle Vergine, madre della chiesa cattolica, ora pro nobis. Dimenticare i Dillinger a 10 euro è da farsi rasare la barba in piena notte, in pieno sonno, a tradimento da un nano con tre teste, di cui una a forma di follicolo. Che bella parola: follicolo.
Riesumo quindi il ricordo transfuga e stavolta non lo dimentico più, ma dovranno prima passare 24 ore dalla rivelazione della notizia all’ingresso della mia furba e simpatica persona all’interno della area che su un Google Maps qualunque è indicata come Circolo Arci Magnolia. In queste 24 ore ho: bevuto due birre che mi hanno stuprato le meningi, dormito, mi sono svegliato e sparato circa 6 caffè, 2 docce, ho preparato un sughetto segreto che prima o poi posterò in questo blogghe e che ho condotto dentro un contenitore da microonde fino a casa di una collega dove ci stavano anche altri colleghi e dove abbiamo collegato i nostri appetiti intorno a un tavolo dal quale abbiamo attinto con mani e forchette ai piatti dove stavano disposti per noi: focaccine, torta salata campana traboccante di formaggio, pasta col sughetto suddetto, pizza. Il tema del nostro Primo Maggio tra colleghi era: Il Carboidrato Non Ci Intimorisce. Sì, perché dopo il 30 aprile c’è l’1 maggio, se il tuo calendario non te ne ha mai reso conto
Ammetto di non aver cenato dopo questa abbuffata, che tra l’altro è stata condita da qualche occhiatina al televisore sintonizzato sul canale numero 3 della Rai a cui non pagherò mai il canone – la tv è della mia collega, non mia, succhiatemelo voi della Rai. Accompagnare un pranzo così brutale, innaffiato da birra trappista e Franziskaner Rossa e vini di circa 4 tipi diversi, senza dimenticare la fiammeggiante Sbrisolonadella nonna di Elena – grazie nonna di Elena – che ha addolcito e imburrato palato e pareti dell’intestino, mi sto impelagando nel consueto labirinto di subordinate e incisi e deviazioni verso Discorsi Altri. Dicevo:accompagnare un pranzo così brutale ma piacevole, vista la compagnia, alle immagini del Concertone del Primo Maggio, ammetto che abbia reso ancor più maligna ed efferata e dolorosa la digestione.
Parliamo del Concertone che m’ha rovinato la digestione. La consueta parata pubblicitaria, quella del Primo Maggio, dove suonano gli amici degli amici degli amici dei conoscenti degli amici. La pappa se la spartiscono sempre i soliti gatti, non si spiegherebbe altrimenti l’infimo livello qualitativo del bill. Ah, scusa, è specchio dell’infimo livello della Musica intesa come Arte in Italia. Chiedo venia. Ho visto poco della diretta, altre cose le ho visionate su YouTube, per curiosità. Dico che il-modo-di-stare-sul-palco dei musicanti italiani, ovvero il loro atteggiamento è indisponente. Hanno sempre quell’arietta zuppa di saccenteria e autocelebrazione. Una nazione piccola piena di gente che se lo sente grande. Un po’ ridicoli, ecco. Mi domando se Dente imparerà mai a cantare, ma d’altronde basta sostituire alla famosa frase di Don Abbondio il sostantivo “coraggio” con “talento” e capire che, se uno non ce l’ha non può mica darselo. Gli A Toys Orchestra ‘na noia che a confronto il torneo internazionale di contemplazione di bocce ferme è un evento al cardiopalma. Nutrivo un briciolo di mezza stima per i NoBraiNo, li avevo visti qualche anno fa dal vivo. Però quando Lorenzo-come-si-chiama paraculeggia con quella trovata della rasatura, dico, ma ce la fate a non essere così posticci & costruiti a tavolino almeno una volta? Una sola. Ci vogliono queste trovare circensi per provare ad occultare la pochezza di idee musicali? A riguardo, cito testualmente il caro buon collega Stefano Taiss: lo avesse fatto col fuoco, modello Rammstein, sarebbe stato molto più fico. Si noti, tra l’altro, la struttura speculare della frase condita da raffinate consonanze: fuoco-fico.
Mi sono fermato alle 17 della diretta, questi nomi fanno un po’ da capri espiatori, lo ammetto, poverelli, un campione della kermesse primomaggesca e sugli altri non mi dilungo. Tanto mestiere e poca sostanza, insomma. Mi duole solo constatare che al Teatro degli Orrori sia capitato il pronosticabile, ovvero la rovinosa discesa qualitativa, con l’ultimo disco invero drammatico e una performance da gettare nel cesso. Una domanda per (quasi) chiudere però: la musica di lu Salentu quando passa di moda? Non la sopporto più.
La mia sarà pure esterofilia, chissenefrega, ma non riesco a farmi coinvolgere emotivamente da questa gente. Che poi, esterofilia un cazzo. :a mia stima per gente come Morgan e i Bluvertigo, Battiato, Branduardi, Fossati, John De Leo e i Quintorigo, Claudio Lolli e tanti altri grandi artisti italiani la conservo e la alimento. I testi di questa nuova generazione, invece, sono così pieni di sentimenti e “piccole cose quotidiane” che più che quotidiane mi sembrano descrizioni anonime di vite anonime, nulla che possa accrescermi. Dietro i versi naif temo che si celi una latitanza di talento o di qualcosa di veramente interessante da trasmettere. O di stimolante. Sì, anche una canzone può spalancarti le porte e incuriosirti. Ed è anche troppo facile marciare su temi abusatissimi come il precariato o la crisi. Facile farsi “portavoci” senza avere il minimo istinto del Profeta. Tempo fa mi sono preso la briga di tradurre alcuni testi di un cantautore sublime, Vic Chesnutt. Parole che descrivono le difficoltò di tutti i giorni, che trattano rivelano il quotidiano, eppure sono taglienti, lasciano il segno, bucano l’anima, ampliano la visuale di chi ascolta. La grandezza di un Artista sta lì, nell’intercettare l’immensità e la particolarità della vita di tutti i giorni, del reale e restituirlo in una veste nuova e profonda. L’insegnamento di Flannery O’Connor e del suo imprescindibile Nel territorio del diavolo non attiene solo agli scrittori, vale anche per i musicisti che considerano le parole il vero valore aggiunto di un motivo melodico emozionante. Perché i vostri testi, cari musicanti itAlieni, sono così banali che si disperdono nel vento senza scalfirmi. Ma, ok, Giarratana aka Uomo Senza Tonno, ma tu parli di Arte per dei non-artisti? Già, miei cari musichieri che oltre ad ammorbarmi col vostro sinistro sinistroidismo non sapete fare. Perché a insultarvi moralmente, stritolarvi e ridurvi in poltiglia ci ha pensato l’Altro Concerto del Primo Maggio. Quello del Magnolia di cui mi fu fatto pro-memoria la sera prima dai giovani compari.
Però, prima di addentrarmi nel periglioso racconto dell’Altro Concerto del Primo Maggio, vorrei un attimo dire una cosa agli omini del banchetto merchandise di tutti i concerti dei gruppi fighi, compresi i Dillinger:avete cordialmente rotto il cazzo con sta storia che non avete mai le t-shirt Medium Size. Ma che cazzo è? Ma stampatene di più, che poi vi restano sempre quelle XXXXXXXL per panzoni sudati che respirano a fatica e puzzano di lardo fritto. Gesù. Volevo la fottuta maglietta dei Dillinger e, sti cazzi, non l’avevano. Mica posso comprare la XXXXXXXXXXXXXL mega-panzus che poi mi ci posso avvolgere a mo’ di Sacra Sindone. Dovreste piuttosto contrarre la Sacra Sindrome dello stampare più taglie M. Mannaggia a’vvoi. Taglia anoressico-andante ultra-S o supercicciobombo-cannoniere, solo queste c’avete. STAMPATENE DI PIÙ, vi fate i tour fighi per tutta Europa con tutti i teenagers europei a sborsare denari per una magliettina che calza da Vero Figo Post-hardcore, poi arrivate in ItaGlia, che di solito o sta in mezzo o alla fine dei tour, e le minchia di magliette, noi che una M è quel che serve per coprire le nudità vermesche, non le possiamo comprare. Quanto siamo sfigati noi piccoli itaGliani, umili mediterranei o sudeuropei o nordafricani o ovestasiatici o estamericani che siamo. Il buchino del culetto d’Europa. La periferia musicale assoluta.
A furia di inveire contro tutti mi cadranno i denti un bel giorno, ne sono certo.
Oh, i Dillinger. Una macchina da guerra può nascondersi a confronto. Hanno il caos in corpo e te lo tirano addosso con riff acidi come i succhi gastrici di un serpente. Ammassi di ferraglia che piovono sulla capoccia, un diluvio di ferri da stiro che piombano di punta sul cranio. Fottuti musicisti itagliani, imparate. Ma non per questioni di genere, non perché il math-core è più figo del fol-kloro tricolore. Ognuno suona e ascolta ciò che più gli aggrada. No, affatto, qui non è questione di questo-genere-è-meglio-di-quell’altro. Fate ridere perché siete finti e il vostro modo-di-stare-sul-palco è più studiato di Justin Bieber ma lo spacciate per qualcosa di naturale, che-vi-viene-così. Quindi, è ben più ridicolo perché subdolo. Comunque, non ho più voglia di parlare di voi e del Manuel Agnelli che canta Karma Police come se fosse impiegato al centralino di una linea erotica e con una dizione degna dei Linea 77.
I Dillinger. Qualcuno li definì la band più pericolosa del pianeta. Come dargli torto. Questi salgono sul palco davanti a una folla di hardcorers, post-corers, stoner-catarrosi e barbuti e metallini che si concedono uno strappo alla dieta tutta Power & Black Metal, e rigurgitano a freddo una Panasonic Youth da infarto che mi viene voglia di afferrare il vicino per la gola e fargli schizzare fuori gli occhi. Non concedono un attimo di tregua. Ben Weinman sembra che abbia delle locuste intrappolate nelle mutande che gli mordono le palle tanto salta e svirgola di qua e di là. Si fa persino ruotare la chitarra intorno a un braccio, tipo hula hoop e lì penso: ora gli decolla e decolla qualcuno. Ma il decollo non avviene e le zucche dei presenti sono salve. La chitarra fa l’hula hoop intorno al braccio e Ben riprende a schitarrare come un ghepardo. E non sbaglia UNA FOTTUTA NOTA. UNA NON LA SBAGLIA. Così come il suo fratellino di sei corde Jeff Tuttle. Liam Wilson se ne sta col suo megabarbone un po’ sciancato verso destra ma il suo basso si sente ed è come le rotaie della metro che schiaccia il cranio di quello che s’è appena gettato sotto. Scrack. Il nuovo batterista, Billy Rymer, è un terrorista, una furia, ma d’altronde un cesso di percuotitamburi i Dillinger non l’hanno mai avuto, anche perché per tenere quei ritmi o ti fai di roba miracolosa o hai 18 braccia o sei un portento della percussione Multipla e Malefica. E poi, lui. Quel coso gonfio di palestra e steroidi che, a quanto dice il gossippe di Wikipedia, ci da dentro con Jenna Haze, che di mestiere si fa riprendere il Sacro Orifizio da una cinepresa in momenti che invitano all’onanismo. Eh, metal e porno sono due mondi che si strizzano l’occhietto. Ah, il coso gonfio di palestra e steroidi è Greg Puciato, uno che quando sbraita al microfono si sradica le corde vocali e ti ci fa un cappio e ti appende al primo lampione disponibile. Uno che si fa quasi 30 secondi di Sunshine The Werewolf urlando appeso a testa in giù all’impalcatura delle luci, come testimonia questo link su cui tu cliccherai e che rimanda alla testimonianza video che conferma ciò che ho appena affermato.
Insomma, stiamo scherzando? Certo che l’Italietta di oggi, oltre ad avere una condizione lavorativa ben oltre il limite del megamerdoso e con una crisi che mi puzza così tanto di Panopticon benthamiano-foucaultiano, è così microscopica in termini musicali che ci si esalta per ste trovate qui. Dio, se ci sei batti un colpo, ma tanto non ci sei, quindi mi risparmio la fatica di attendere sto colpo.
Concerto incredibile, una furia belluina scaricata addosso ai presenti, me compreso, senza la minima remora da cinque bruti che hanno scritto alcune delle pagine più eclatanti e rivoluzionarie della musica pesante degli ultimi 15 anni. Niente Unretrofied, troppo effeminata per il clima di volgare sporcizia metalloide che incombeva al Magnolia quella sera, ma stilettate come Farewell Mona Lisa, Gold Teeth On a Bum, 43% Burnt, Hollywood Square, Black Bubblegum, Setting Fire For Sleeping Giants e quella roccherrollata di Milk Lizard mi hanno rivoltato come un calzino.
Si vede e sente lontano un miglio che questa gente, i Dillinger, è abituata a dare il 101% sul palco senza mosse studiate a tavolino. È l’istinto musicale che li guida e li congiunge al pubblico senza dover per forza pontificare su nulla, senza dover star lì a fare finta di avere una coscienza politica per accattivarsi le simpatie o raccattare qualche applauso. È la musica l’unico e solo collante.
Interrompiamo le invettive per dare un senso a questo post. Mi metto a cucinare.
Ciao fringuello, come va? La settimana t’è andata bene? Dici una merda? Capita a tutti, non ci pensare.
Tamburello le dita sul tavolo. Ora le schiocco e parto impenitente sulla tangenziale del mestolo dove incontrerò tanti begli ingredienti che, congiunti in un moto di reciproca solidarietà, diventeranno un tutt’uno che chiamerò
Sformato di riso con carciofi e formaggi.
Canti di lode al cielo innalza il popolo degli affamati, curioso di conoscere il quantitativo di cotanto ben di Dio per bendideizzare 5 persone. Coff coff, attention pliz’. Gli Ingredienti:
Brodo
– 3,5 l di acqua
– 2 patate grosse
– 3 carote
– 4 gambi di sedano
– una cipolla
– 2 cuori di brodo vegetale della Nota Marca che sono solito impiegare
Per i carciofi
– 5 carciofi violetti o di qualsiasi altro colore, forma o etnia o credo religioso, meglio se con gambo lungo
– olio extra-illibato d’oliva
– un rametto di rosmarino
– un rametto di mirto
– qualche rametto di timo
– un bicchiere di brandy
– sale
– pepe nero
Risotto
– brodo quanto basta
– 450 g di riso carnaroli
– i carciofi precedentemente rosolati
– scalogno tritato finemente
– burro
– mezzo bicchiere di brandy
– una bustina di zafferano in polvere
– grana grattugiato
Il resto sono
– 150 g di taleggio DOP
– 150 g di gorgonzola dolce
– pangrattato
– grana grattugiato
Che lista, n’è vero? Quando l’ho trascritta mi sono cadute le orecchie, non mi sono reso conto di quanti fossero mentre li usavo.
Avanti, su. Forza e coraggio che la faccenda qui è lunga, anche perché, come avrai notato, prima del solarium in forno, lo sformato necessita un bel risotto.
Si comincia con la Broderia.
Riempio una pentola mega-capiente che capisca che deve contenere 3 litri e mezzo d’acqua, porto a ebollizione e introduco attraverso l’orifizio della già menzionata pentola i vegetali già lavati & pelati: patate, carote, sedano, cipolla e i due cuoricino di brodo. Ricorda l’insegnamento di Suor GerMarco: uno dei due segreti per un buon risotto è Il Brodo. Un Buon Brodo. L’altro segreto è il 19esimo segreto di Fatima.
Mentre il Brodismo si dipana tra le genti con la forza di un’idea inestricabile dalle menti, mi dedico ad attività ludiche con dei giovanissimi Carciofi violetti a 49 centesimi di euro al pezzo.
Mi infilo i consueti guanti di lattice che uso solo per pulire i carciofi, evitando così di pittarmi con una strana tonalità affumicata che rasenta il lordume più becero i polpastrelli, strappo via le brattee (o foglie: ho scoperto di recente che si chiamano così, fammi fare il figo per un attimo, su) più dure e, con un bel coltellino in lama di ceramica, elimino la barba. Per facilitare l’operazione, taglio prima i carciofi in quattro parti, in modo da poterli scavare per eliminare la barba senza rovinare troppo i cuori, che son quelli che mi servono. Sbuccio anche i gambi e immergo tutto in un’insalatiera color pettirosso riempita con acqua acidulata con succo di limone.
Passati i 45 minuti di cottura, filtro il brodo e lo tengo in caldo nella pentola coprendolo con un oggetto progettato per assolvere tale funzione: un coperchio. Decido così, dopo annose e angoscianti riflessioni, di portare avanti il processo di trasformazione dei carciofi in qualcosa che fa rizzare l’antennino anche a chi ha bisogno di pillole blu per farselo rizzare. Riduco i cuori e i gambi dei carciofi a tocchetti e cospargo dell’olio in una padella, riscaldando a fiamma dolce. Vi faccio ora planare un rametto di rosmarino, uno di mirto e qualche altro di timo e li lascio rosolare per circa un minuto, in modo che rilascino gli aromi insaporendo l’olio. Posso inserire nell’allegro quadretto i carciofi, che rosolo a fiamma più alta ma tenendone d’occhio il colore: non devono disfarsi, né bruciarsi, solo un po’ imbiondirsi. A tal prosposito, unasuggestiva innaffiata con un bicchiere di brandy eleverà al cubo l’ipotenusa gustativa del carciofo che, lo sai bene, è dolciastro. Terminata la cottura dopo che il brandy sarà sfumato, circa 5-6 minuti, tolgo dal fuoco, aggiusto di sale e condisco con del pepe nero macinato. Metto da parte.
L’angolo dell’outing di Suor GerMarco: no, non mi piacciono gli uomini, pur rispettando la natura di ognuno. No, la confessione riguarda il Risotto. Ne faccio in media uno a settimana, sono un devoto di questo piatto così elegante che una vita senza risotto è, invero, una vita sprecata. Dammene atto, per cortesia. Come si fa a campare senza poter gustare chicchi sodi la cui essenza è sollevata da quel tocco burroso che lega tutti gli ingredienti? Risotto ai funghi tutta la vita, ma radicchio & scamorzina affumicata ha i suoi motivi per far la voce grossa. Ma le vie del risotto sono infinite, soprattutto quelli che sposano la frutta: arancia, pera, mela e fragole calzano a pennello. Comunque, che cazzo di discorso sto elaborando? Spiegamelo tu perché io mi sono perso. Devo preparare il risotto e mi districo come Teseo nel labirinto dei Gran Cazzi Miei. Sorry.
… and risotto for all: trito ultra-finemente uno scalogno, ricavo un bel cubo di burro dal panetto e lo infilo in una pentola. Solita storia, procedimento standard. Soffriggo lo scalogno a fuoco basso e aggiungo il riso.Riso carnaroli, mi raccomando. 450 grammi per 5 porzioni. Abbonda. Il riso abbonda sulla bocca degli stalker.
Faccio tostare per bene il riso e aggiungo un bicchiere di brandy, che faccio sfumare.
Aggiungo qualche mestolo di brodo fino a coprire il tutto e lascio asciugare.
Sono a metà cottura, circa 7 minuti dall’inizio delle ostilità ignee, e con un fischio da pastore richiamo l’attenzione dei sonnecchiosi carciofi rosolati, che si domandano vicendevolmente quando sarà il loro turno. Eccolo, è giunta l’ora, brutti stronzi. Si destano, fanno colazione e si sbarbano, indossano il vestitino nuovo con tanto di coccarda spillata sul pettorale sinistro e si aggregano al riso. Una volta dentro non possono più tornare indietro, sono ormai parte integrante dell’opera. Rassegnati all’ineluttabile destino, non possono far altro che trasferire la loro essenza all’insieme. Clip clip clip, che sarebbe il suono della trasferimento.
Mentre l’ultima mestolata di brodo viene assorbita dalla platea di chicchi in pentola, soffio sulla lama di un procace coltello. Anzi, ci alito su, creando un timida condensa e vi passo sopra per la manica della camicia per lucidarla. Mi ci specchio e la luce che attraversa la finestra imbeve la mia barba nera. Il mio volto si tinge d’un ghigno malefico, una pulsione tagliereccia che si estrinseca verso quei due derivati del latte lì. Ah, carissimo taleggio e giovane gorgonzola, giunse infine la vostra ora. Non potete opporvi, neanche voi, all’inesorabile fato. Verrete sezionati in comode fette da disporre in pirofila. Gorgonzola, che tu sia dolce e non piccante altrimenti mi copri i carciofi.
Il risotto è quasi pronto. Appurato che dovrà poi farsi una bella gita in forno, lo toglierò dal fuoco poco prima dei consueti 15-18 minuti canonici. Qualche istante prima, diciamo intorno ai 12 minuti, separo un mestolo di brodo, che verso in un pentolino. A questa segregazione aggrego una bustina di zafferano in polvere.
Mescolo finché il pulviscolo speziato non si sarà sciolto interamente e lo unisco al riso, dandogli così colore e gusto.
La cottura del riso giunge fino a 14 minuti, non oltre. Aggiunto lo zafferano sciolto nel brodo e assorbito, manteco con un pugno di grana grattugiato e una spolverata di pepe nero.
Ooooooooooooooooooooooohhhhhhhhhh. Non è un Ooooooooooooooooooooooohhhhhhhhhh di soddisfazione per la riuscita – parziale dell’operazione. No, è un Ooooooooooooooooooooooohhhhhhhhhh di stupore: sto ancora ripensando a Puciato a testa in giù che mi scatarra addosso tutta la viuuuulenza della galassia. Santa vergine delle vergini.
Ora che il tutto è quasi pronto, sono pronto, io, per stratificare la creatura che andrà a sottoporsi a una doccia solare nel forno. Mi armo di supercucchiaione, lo inzuppo nella pentola col risotto e ne ausculto lo scoppiettio gravido di amido mentre lo mescolo e, sguish, catapulto il riso nel fondo di una pirofila già dotata di carta forno.
Spalmo per bene in modo da creare uno strato uniforme e dispongo le fette di taleggio che ho precedentemente tagliato.
Poi un altro strato di riso e poi il gorgonzola.
Poi un altro strato di riso e un bel diluvio di pangrattato e poi di grana grattugiato.
Ricapitolando, dal basso verso l’alto: riso → taleggio → riso → gorgonzola → riso → pangrattato & grana grattugiato.
Il Frankenstein culinario è pronto, gli manca solo l’abbronzatura finale, che ricaverà da un soggiorno di 25 minuti in forno alla docile temperatura di 180°. Sembrava difficile, e infatti lo è stato in parte.
L’alchimia dei sapori è facile da desumere. I formaggi, entrambi dal gusto deciso, non invadono il campo e attenuano l’aroma dolciastro dei carciofi, che ho rosolato per poco mantenendoli croccanti e carnosi. Se i formaggi bilanciano la punta dolce, dando vigore, lo zafferano vivacizza l’insieme con le sue note speziate, donando colore a un piatto che, altrimenti rischia di pendere troppo verso il bianco. Non so se rendo l’idea, ma non saprei come spiegarlo se non per mezzo di questa sinestesia.
Stay tuna
– Il Disconsiglio: oggi ho fatto troppo il merdallaro intransigente. Scusa se ho urtato la tua sensibilità da patriota musicale. Ma francamente non me ne frega un cazzo, ecco. Per venirti incontro, però, costatato che per un piatto simile io berrei un bel vinello bianco, ti consiglio un abbinamento sonoro che col vinello bianco, secondo me, ci sta una bomba. Un bel dischetto jazz non guasta mai, accompagna una cena galante e valorizza il riso, sempre IMHO. In virtù di tale ragionamento, fossi in te mi tracannerei tutto d’un fiato un epocale: Thelonious Monk, Monk’s Dream, annata 1962.